di Valeria Zeppilli - Offendere pubblicamente il proprio datore di lavoro o il proprio preposto è reato e nulla cambia se le offese sono perpetrate tramite Facebook: chi pone in essere un simile comportamento va punito penalmente.
Le conseguenze di uno sfogo irresponsabile sono ben note a un lavoratore pugliese che, proprio per aver offeso il proprio capo area tramite il più diffuso dei social network, dovrà ora rassegnarsi a pagare una multa di mille euro e a risarcire i danni cagionati dalle sue azioni.
Con la sentenza numero 49506/2017 del 27 ottobre (qui sotto allegata), la Corte di cassazione ha infatti ritenuto inammissibile il ricorso presentato dal dipendente per sottrarsi a una pena confermata sia in primo che in secondo grado: le censure ad esso sottese, per i giudici, sono manifestamente infondate.
Fondamento della condanna
Così resta fermo quanto rilevato dalla Corte d'appello.
A tal proposito, merita di essere segnala l'osservazione dei giudici del merito (riportata dalla Cassazione nella ricostruzione dei fatti di causa), in forza della quale se manca la denuncia di furto di un account Facebook non può porsi in discussione la riconducibilità dello stesso al titolare, specie se la sua immagine compare nella foto della pagina e, soprattutto, se in uno dei post, come nel caso di specie, si fa riferimento a una querela subita per i fatti oggetto di causa.
Nel corso del giudizio a carico del dipendente era peraltro emerso che le affermazioni contenute nei messaggi che questi aveva postato avevano connotati chiaramente offensivi, senza che dall'altro lato nulla fosse stato dedotto circa la veridicità dei fatti addebitati al capo area. Non solo: la gravità dei fatti in contestazione aveva portato la Corte d'appello anche a escludere l'applicabilità dell'art. 131-bis del codice penale.
Ciò posto, e vista l'inammissibilità del ricorso in Cassazione, nulla può più salvare il dipendente dalla condanna.
Corte di cassazione testo sentenza numero 49506/2017