di Valeria Zeppilli - I medici psichiatri sono titolari di una specifica posizione di garanzia nei confronti dei loro pazienti, anche quando questi non sono sottoposti a ricovero coatto. Di conseguenza, se rimandano a casa un paziente che ha tenuto una condotta autolesiva e questo poi decide di suicidarsi possono essere chiamati a rispondere penalmente per omicidio colposo.
Si pensi ad esempio al caso, deciso dalla Corte di cassazione con la sentenza numero 43476/2017 qui sotto allegata, di una paziente affetta da schizofrenia paranoide cronica con episodi psicotici acuti, che era stata condotta dal convivente nell'ambulatorio psichiatrico dell'ospedale per aver assunto una quantità eccessiva del farmaco prescrittogli. Il medico aveva deciso di farla tornare a casa, ma la donna, dopo qualche ora, si era suicidata buttandosi dal balcone.
I giudici di legittimità, nel confermare la condanna dello psichiatra per omicidio colposo, hanno ritenuto che la condotta che aveva indotto il convivente ad accompagnare la paziente presso l'ambulatorio possa essere definita auto lesiva e pertanto, in relazione ad essa, secondo i consigli della Società italiana di psichiatria è necessaria almeno l'adozione di un accertamento sanitario obbligatorio.
Il sanitario, invece, si era limitato a constatare che la donna si presentava tranquilla, aveva gli occhi aperti e non manifestava i sintomi che tipicamente derivano da un'assunzione esagerata del farmaco ingerito.
Scarsa diligenza
Per i giudici il medico ha quindi errato nell'escludere a priori la fondatezza dell'informazione riferita dal convivente della donna, soprattutto considerato che il farmaco raggiunge livelli di picco nel sangue non prima che siano trascorse due ore dalla sua assunzione e che, oltretutto, l'intossicazione varia da individuo a individuo. Peraltro, dal giudizio era emerso che lo psichiatra era perfettamente a conoscenza del fatto che in alcune occasioni la paziente aveva manifestato una volontà autosoppressiva.
La condotta tenuta dal sanitario, insomma, è "oggettivamente al di sotto della diligenza esigibile" e costituisce una violazione delle "regole di prudenza".
Il rapporto di causalità
Con riferimento al rapporto di casualità, i giudici hanno ritenuto che il comportamento del medico abbia avuto una "piena incidenza causale" sul suicidio della paziente, posto che lo psichiatra non aveva prospettato alcuna possibilità di ricovero, non aveva tenuto la paziente sotto osservazione neanche per un minimo ragionevole tempo e non aveva neanche imposto al convivente di vigilare costantemente sulla donna.
Se tali comportamenti fossero stati attuati, l'evento verificatosi avrebbe potuto essere scongiurato "con probabilità prossima alla certezza".
Corte di cassazione testo sentenza numero 43476/2017