Analisi tecnico-giuridica della riforma costituzionale

di Angelo Casella - Sulla prospettata riforma costituzionale già sono disponibili numerose analisi (tra cui molto semplice ed efficace quella di Travaglio-Truzzi, Perchè no). Ci limiteremo pertanto ad alcune considerazioni di carattere pregiudiziale.

Innanzitutto: da dove trae origine questa iniziativa, così tenacemente perseguita? Chi ha chiesto tali riforme? Certamente non il popolo del nostro Paese (peraltro l'unico soggetto a ciò legittimato).

Improprie pressioni invece per le modifiche così come proposte, sono state formulate sia da un certo Warren Buffett, plutocrate statunitense certamente noto per la scarsa sensibilità democratica ("quando voglio prendere decisioni di gruppo mi guardo allo specchio") nonché per disinvolte speculazioni finanziarie, più che per competenze specifiche di diritto costituzionale, sia - incredibilmente - dalla banca J.P. Morgan (Rothshild) che, con un memorandum del 2013, riprende ed amplia le esternazioni del Buffett, affermando testualmente che "i Paesi del sud Europa evidenziano problemi costituzionali: hanno Costituzioni adottate in seguito alla caduta del fascismo ("troppo antifasciste", diceva Buffet), che prevedono leadership deboli, la tutela costituzionale dei lavoratori e addirittura il diritto di protesta in caso di provvedimenti sgraditi…".

Certamente la nostra Costituzione non tutela particolarmente la finanza (anche se conserva la scandalosa truffa della moneta bancaria), ma la J.P. Morgan (sanzionata negli Usa con 13 miliardi di dollari di multa per la vicenda dei derivati sui mutui subprime) non ha nessun titolo, né morale, né tecnico, né di altro genere, per intromettersi nelle questioni interne del nostro Paese. Si tratta però della principale voce di quella cupola finanziaria mondiale che pretenderebbe le redini del mondo e che, se parla, sa bene di avere delle orecchie che la ascoltano.

E' del tutto singolare, poi, che lo stesso partito di governo dichiari che la riforma proposta è del tutto simile a quella presentata da Berlusconi nel 2006 e già respinta dal popolo italiano.

Ma la prima osservazione che sorge spontanea è che manca del tutto una motivazione specifica. Non sono stati infatti minimamente esplicitati in modo chiaro i presunti "problemi" che questa riforma vorrebbe eliminare e che potrebbero conferirle un significato.

Se invece si parla solo di "miglioramenti", questi si propongono, non si impongono (come si sta facendo). E si discutono con tutte le forze politiche.

La Carta costituzionale rappresenta, come è noto, la sintesi ed il contemperamento delle istanze provenienti dal corpo sociale: è il testo delle regole della convivenza.

E' perciò doveroso che rappresenti l'esito di un paziente ed accurato confronto fra tutte le parti sociali.

La formulazione invece del testo della riforma in discorso è opera del solo governo. Un governo, inoltre, con a capo un soggetto non eletto, espressione di un Parlamento formato con una legge elettorale dichiarata incostituzionale. Un governo espressione di un partito che rappresenta circa un terzo dell'elettorato; e neppure per intero poiché una quota significativa dello stesso partito è contraria.

In proposito, poi, casualmente leggiamo un paragrafo del manifesto dei valori di questo stesso partito: "Il Pd si impegna a ristabilire la supremazia della Costituzione e a mettere fine alla stagione delle riforme costituzionali imposte a colpi d maggioranza". Qualcosa deve essere cambiato...

Inoltre, è ovvio che non spetta a chi deve rispettare le regole la facoltà di cambiarle (a proprio comodo).

Il ritornello, comunque, che viene ripetuto a sostegno della riforma è che, con essa, si garantiranno "stabilità e governabilità".

Ma, ci chiediamo, è la stabilità del reggimento di un Paese, un vero valore?

Si direbbe già il contrario, a dar credito alla saggezza popolare, per la quale "scopa nuova, scopa bene" e che suggerirebbe dunque alternanze frequenti.

Ma risponde sopratutto all'interesse collettivo che tutte le posizioni di potere istituzionali vengano sottoposte ad una ragionevole alternanza, onde evitare delle inopportune fossilizzazioni relazionali.

Inoltre, che significa realmente "stabilità" ?

Nella pratica, vuol dire che le eventuali istanze per congedare un governo dimostratosi inefficiente o comunque sgradito, vengono automaticamente escluse.

E ciò rappresenta un innegabile incentivo per il governo stesso a procedere ottusamente nelle proprie scelte senza tener conto di altre soluzioni, eventualmente più utili. Garantire "stabilità" a un qualunque potere, significa in concreto concedergli carta bianca, fornirgli una licenza di agire, poiché - quali che siano gli esiti dell'azione svolta - esso rimane comunque al suo posto, con deleterie conseguenze.

Parimenti, può elevarsi al rango di valore la "governabilità"?

Lo è sicuramente per un despota, cui ex honesto nulla est spes (Tacito) ma, in una logica di istituzioni democratiche (nelle quali purtuttavia ancora crediamo), si tratta di una grossa sciocchezza.

Parlare di una democrazia "governabile" è infatti una palese contraddizione in termini.

Democrazia significa pluralismo e cioè partecipazione di tutti alle decisioni riguardanti l'interesse comune.

Governabilità, al contrario, vuol dire imporre scelte provenienti da una sola posizione, eliminando, ancor prima del loro nascere, le contestazioni e le proposte di chi la pensa diversamente. Esattamente il contrario di ciò che è richiesto in una democfrazia. E poiché non siamo in uno staterello sudamericano (con tutto il rispetto dovuto...) gestito da dittatorelli imposti dagli Usa (e forse dovremmo preoccuparci del sostegno espresso da Obama alle riforme di casa nostra...), vorremmo che le scelte che coinvolgono l'interesse collettivo fossero il più possibile condivise, appunto per farle corrispondere a quest'ultimo.

Per questi motivi il governo, quando parliamo di istituzioni democratiche, ed a dispetto del significato attribuito comunemente al termine, non ha la funzione istituzionale di governare.(Non a caso la Carta vieta al governo di emanare leggi se non in casi "eccezionali, di necessità e urgenza": sotto tale profilo,  pressoché tutti i d.l. del governo sono incostituzionali).

Detto in altri termini, non è chiamato a prendere decisioni nell'interese comune, bensì soltanto ed esclusivamente ad eseguirle.

Ed è per questo motivo che - non solo nei testi di diritto costituzionale, si chiama più propriamente potere esecutivo, a fianco del giudiziario, e del legislativo.

In un sistema democratico, le decisioni attinenti la cosa comune sono compito esclusivo del Parlamento, composto, per l'appunto, da tutte le forze politiche espresse dall'elettorato, cioè dai cittadini.

E, in punto, è bene subito sottolineare che neppure l'eventuale partito di maggioranza ha titolo - solo perché tale - ad imporre le sue scelte: esso deve in ogni caso confrontarsi con le altre forze politiche presenti nelle assemblee legislative e giustificare i propri orientamenti in funzione dell'interesse comune, non del proprio.

Per gli stessi motivi sopra esposti, non è in alcun modo accettabile che si imponga un "premio di maggioranza", attribuendo ad una forza politica una posizione dominante del tutto fantasiosa.

Si tratta di una patente violazione della regole democratiche e di una grave inosservanza della volontà dell'elettorato.

Si sostiene poi che l'abolizione del bicameralismo sarebbe necessaria per "sveltire" l'approvazione delle leggi.

Non si comprende quale senso possa avere tale affermazione.

Di fatto, innanzitutto, risulta che nella stessa legislatura in corso sia stata approvata una legge ogni cinque giorni. Un ritmo che pone dei seri interrogativi sulla consapevolezza da parte dei parlamentari dei testi approvati.

Ma, sopratutto, invece di fare molte leggi in fretta, non è molto meglio farne poche e ben meditate?

Inoltre, il bicameralismo non è un vago capriccio, bensì un ponderato rimedio a precise esigenze di equilibri istituzionali (quando democratici, naturalmente).

Il potere legislativo è chiaramente il più potente (e quindi il più pericoloso e difficile da controllare) dei tre fra i quali, da Platone in poi, si è ritenuto opportuno scindere il potere pubblico. Naturalmente, ogni potere deve comunque essere indipendente dagli altri (e molto, putroppo, è già stato fatto per asservire il potere Giudiziario) e sottoposto a forme di controllo reciproco.

Il senso del bicameralismo sta proprio nell'intendimento di rendere l'esercizio del potere legislativo più meditato e ragionato: le leggi debbono essere il frutto di una profonda riflessione sui motivi e sulla natura dell'intervento che si intende introdurre e sui suoi sviluppi e conseguenze, in particolare sulle ricadute, dirette e indirette, che questo può avere sui componenti di tutte le fasce sociali e sul modo più opportuno perchè questo avvenga.

Risponde appunto a siffatta esigenza una seconda assemblea legislativa con una diversa composizione per livello di anzianità, che riesamini e riponderi il testo di legge approvato dalla prima. Evitando anche che la legge diventi strumento di parte a danno di altri.

Ed è appena il caso di rammentare ciò che è purtuttavia ovvio, e cioè che la primaria esigenza che si presenta quando si parla di una nuova legge, non è la sua approvazione, ma la certezza della sua opportunità ed utilità per tutto il Paese.

Certezza è termine molto impegnativo e difficile, diciamo che il bicameralismo è un tentativo per rendere migliore l'attività legislativa.

Con l'attuale fenomeno, poi, di esondazione del potere partitico, ridurre il Parlamento ad una sola Camera, significa mettere a grave rischio l'indipendenza del potere legislativo.

Ed è anche sotto tale profilo che, sul piano dei rapporti tra i poteri istituzionali, la riforma disegna un quadro di forte potenziale accentramento dei poteri decisionali nelle mani del solo governo, cancellando autonomie, controlli reciproci e delicati equilibri.

Con il medio del partito ed il sistema elettorale a capilista bloccati, la Camera diventerà infatti un parco di valletti del governo. Particolarmente quando, a capo di questo, è il segretario del partito dominante, che richiama alla "fedeltà" i parlamentari da lui stesso nominati.

La possibilità di emanare leggi a piacimento consentirà di asservire la magistratura, i mezzi di comunicazione, la Corte costituzionale, il Presidente della repubblica, realizzando un modello di potere assoluto del tutto inaccettabile.


Per approfondimenti, leggi:

- "Referendum costituzionale del 4 dicembre, vediamo di che si tratta"

- "I contenuti della riforma costituzionale"

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