Non basta limitarsi a considerare la misura inadeguata, occorre esprimersi specificamente sull'inidoneità nel caso concreto

di Marina Crisafi - Se il giudice dispone che il carcere non possa essere sostituito dalla misura degli arresti domiciliari "aggravati" dal braccialetto elettronico è tenuto a motivarlo. Lo ha ribadito la Cassazione, con la sentenza n. 45699/2015 depositata il 18 novembre scorso (qui sotto allegata), accogliendo, sul punto, il ricorso di un uomo avverso l'ordinanza del tribunale della libertà di Taranto che negava la sostituzione della misura cautelare della custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari anche a mezzo di braccialetto elettronico.

Si doleva, in particolare, il ricorrente della carenza di motivazione in merito ai richiami difensivi alla legge n. 47/2015 di riforma delle misure cautelari e all'attualità del pericolo di recidiva.

Pur considerando corretto il responso negativo sui domiciliari "semplici" nel caso concreto, la Cassazione ha ritenuto fondate le doglianze del ricorrente in merito ai domiciliari "aggravati".

L'errore del tribunale, come sottolineato dal Palazzaccio, è stato proprio quello di non motivare sulla misura prevista dal nuovo comma 3-bis dell'art. 275 c.p.p.

La novella del 2015, hanno sottolineato gli Ermellini, ha previsto infatti la misura degli arresti domiciliari unitamente al c.d. braccialetto elettronico quale "strumento per scongiurare la massima privazione della libertà", obbligando il giudice a motivare circa l'inidoneità degli arresti domiciliari aggravati.

E motivare non significa limitarsi a spiegare perché sono da considerarsi inadeguati i domiciliari semplici, essendo il giudice tenuto ad indicare le specifiche ragioni anche dell'inadeguatezza della misura aggravata appunto dalle procedure di controllo elettronico previste dal codice di rito.

Nella fattispecie, dunque, i giudici del riesame non hanno assolto a tale obbligo motivazionale, per cui si impone l'annullamento sul punto dell'ordinanza impugnata e il rinvio al tribunale della libertà per rimediare a tale vuoto.

Cassazione, sentenza n. 45699/2015

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