Non è semplice molestia lo "strusciamento" forzato del datore di lavoro a danno di una dipendente, ma violenza sessuale. Lo dice la Cassazione

di Marina Crisafi - Giusto una palpatina al sedere, sopra i vestiti, e ogni tanto una toccatina al seno ma niente di serio, non può integrare un reato così grave come la violenza sessuale

Questa la tesi difensiva del proprietario di un ristorante accusato di violenza sessuale a danno di una propria dipendente

Tesi che non regge minimamente di fronte ai giudici di merito. Condannato in primo grado a due anni e mezzo di reclusione per aver più volte costretto la donna a subire, con violenza tesa a impedirle movimenti e minacce, "atti sessuali consistiti nello strusciarsi addosso toccandole il seno e varie parti del corpo", preceduti da parole e discorsi osceni, all'uomo venivano riconosciute le attenuanti generiche in appello e la pena veniva ridotta a un anno e dieci mesi di reclusione.

Avverso tale ultima sentenza, l'imputato adiva la Cassazione, lamentando la mancata qualificazione della condotta nel reato di molestie sessuali, anziché nel più grave reato di violenza, posto che i comportamenti erano a suo dire "improntati a leggerezza e immaturità", ma non espressione della volontà di abusare sessualmente della donna, e citando, a supporto, la stessa deposizione della parte offesa che lo aveva descritto con le parole "faceva un po' così, faceva lo stupidino", quasi a voler indicare l'esistenza di un rapporto confidenziale.

Ma il Palazzaccio risponde picche e ricorda che "integra il reato di violenza e non quello di molestia sessuale (art. 660 cod. pen.) la condotta consistente nel toccamento non casuale dei glutei, ancorché sopra i vestiti, essendo configurabile la contravvenzione solo in presenza di espressioni verbali a sfondo sessuale o di atti di corteggiamento invasivo ed insistito diversi dall'abuso sessuale". Pertanto, se dalle espressioni verbali si passa ai toccamenti a sfondo sessuale, "il delitto assume la forma tentata o consumata a seconda della natura del contatto e delle circostanze del caso".

Bene hanno fatto, dunque, i giudici di merito a collocare la condotta criminosa posta in essere dall'imputato nell'ambito della più grave fattispecie incriminatrice di cui all'art. 609-bis c.p.

Parimenti inammissibile per la Cassazione gli altri motivi del ricorso relativi all'illogicità della motivazione in punto di attendibilità della deposizione della persona offesa e circa l'esistenza di un nesso di causalità tra la patologia diagnosticata alla stessa e gli abusi sessuali.

Quanto al primo punto, i giudici di merito hanno correttamente evidenziato la credibilità della teste/parte offesa, vista l'assenza di ragioni di malanimo e risentimenti nei confronti dell'imputato, avvalorata peraltro dagli altri testi.

E sempre correttamente e adeguatamente, venendo al secondo punto, i giudici hanno motivato sul nesso di causalità esistente tra le lesioni causate alla donna (disturbo post-traumatico da stress e depressione) e gli abusi subiti, richiamando puntualmente le deposizioni dei medici che l'ebbero in cura.

Né può essere considerato attendibile, infine, con riferimento al biglietto manoscritto dall'uomo e lasciato all'interno di una delle buste paga della donna, con la frase "una seghetta domenica" cui erano spillate 30,00 euro, quanto sostenuto dall'uomo che tale testo "doveva essere considerato parte di una frase più estesa e priva di riferimenti sessuali". La circostanza, infatti, che la frase fosse vergata proprio al centro del foglio, ha concluso la Cassazione, concordando ancora una volta con i giudici di merito, rendeva impossibile "che detta espressione potesse formare oggetto di un discorso più articolato".

Per cui, in definitiva, non vi sono dubbi sulla conferma del reato e sul rigetto del ricorso, con condanna al pagamento delle spese processuali. 


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