Secondo il CNF, l'avvocato che cura una rubrica giornalistica, non può indicare nella stessa i recapiti del proprio studio, perché ciò costituirebbe strumento di accaparramento della clientela non conforme "alla dignità e al decoro propri di ogni pubblica manifestazione" del professionista.
È quanto emerge dalla sentenza n. 83/2014 pubblicata dal Consiglio Nazionale Forense sul proprio sito e destinata a suscitare molto clamore all'interno della già tribolata categoria degli avvocati (Vedi: "Niente più avvocati ‘a tempo perso'. Ecco le future regole per l'esercizio della professione").
Il provvedimento conferma la sanzione disciplinare della sospensione dall'esercizio dell'attività professionale per due mesi ad un avvocato ritenuto "colpevole", tra le altre cose, di aver violato il divieto di accaparramento della clientela (art. 37) pubblicando, in calce agli articoli da lui redatti nell'ambito di una rubrica di pareri sui quesiti proposti dai lettori, curata per un noto quotidiano cartaceo, l'indirizzo, il numero di telefono e il telefax del proprio studio, al fine dell'invio diretto della corrispondenza.
Prima di votare il sondaggio è bene considerare quanto segue:
1. In cosa consiste la violazione secondo il Cnf
Non considerando fondate le giustificazioni presentate dall'avvocato, da un lato, sull'estrema diffusione di rubriche analoghe sulla stampa quotidiana e periodica, e, dall'altro, sul fatto che la pubblicazione dei recapiti era conseguente ad un'esplicita richiesta del direttore del giornale, dato che la redazione era impossibilitata a dar seguito all'enorme mole di quesiti che pervenivano dai lettori, il CNF ha rilevato come la "colpevolezza" del professionista, consistesse nelle modalità di gestione dell'attività: ovvero il non averne dato preventiva comunicazione al proprio consiglio dell'ordine e l'aver consentito l'inserimento dei propri recapiti di studio nella pubblicazione, con la conseguenza di aver ricevuto a tali indirizzi direttamente le richieste di pareri e consigli legali da parte dei lettori.
Ciò integra infatti, per il Consiglio, "una forma di pubblicità non ammessa dai canoni del codice deontologico, in quanto potenziale strumento di accaparramento o sviamento della clientela".
Sono, infatti, "gli strumenti usati - ha argomentato il Cnf richiamando una precedente sentenza (n. 74/2013) - che configurano come lecita, ovvero conforme alla correttezza ed al decoro, ai sensi dell'art. 19 CDF (oggi art. 37), o meno l'attività di acquisizione della clientela", per cui non c'è dubbio che l'indicazione in calce alla rubrica giornalistica "dei recapiti del proprio studio, finalizzata all'invio diretto della corrispondenza, in quanto rivolta ad una potenziale e indiscriminata clientela, debba considerarsi strumento non conforme alla dignità e al decoro propri di ogni pubblica manifestazione dell'avvocato".
2. Le implicazioni della decisione
Sono evidenti le implicazioni di una decisione siffatta che si muove nel solco di un orientamento che continua a porre "paletti" alle possibilità per gli avvocati di dare informazione sulla propria attività professionale, continuando a mantenere "ingessata" una categoria professionale che invece si muove (o almeno vorrebbe farlo) verso un'ottica di modernità, efficienza e comunicazione diretta con l'utenza, sfruttando il libero accesso ai mezzi multimediali offerti dalla tecnologia, in linea con quanto avviene, del resto, in Europa ed oltreoceano.
Se questa è già un'implicazione, dietro la sentenza del Cnf si cela un'altra conseguenza.
La decisione, infatti, mette al bando il comportamento assumendo che lo stesso sarebbe vietato dal codice deontologico, giacché diretto ad accaparrare e sviare la clientela. Ma il Consiglio non specifica se la palesata "condotta anticoncorrenziale" sia relativa solo alla stampa cartacea.
La violazione è, infatti, ravvisata dall'organo genericamente nell'aver integrato una forma di pubblicità inammissibile avendo consentito ad inserire i recapiti dello studio legale in calce alla rubrica giornalistica, riferendosi dunque alla stampa ex se, senza specificare se il divieto concerne i quotidiani, le riviste o i periodici cartacei ovvero anche le testate telematiche.
Il principio stabilito dal Cnf, così come formulato, è infatti tendenzialmente applicabile anche al web, portando con sé la (grave) conseguenza che neppure online un avvocato che pubblichi un proprio articolo su internet (in una rivista, in un blog o in una qualsiasi testata registrata) possa indicare i propri recapiti di studio, la propria email o il link al proprio sito senza commettere un illecito deontologico.
3. Alcune perplessità sulla motivazione della sentenza
Sono diverse le perplessità che suscita questa decisione che per certi versi potrebbe apparire anacronistica.
a) Ragionando, per così dire al contrario, il codice deontologico consente espressamente agli avvocati di dare l'informazione sulla propria attività professionale, sull'organizzazione e struttura dello studio, e dunque, ovviamente sui recapiti, con qualunque mezzo anche informatico (art. 17) e lo stesso Cnf ha ritenuto legittime le pubblicazioni di inserzioni pubblicitarie degli studi legali (con indirizzi a seguito) su un giornale tradizionale e finanche sugli autobus; per cui non si comprende come si possa da un lato consentire la pubblicità "diretta" e dall'altro vietare quella "indiretta" che viene fatta anche mediante la diffusione di articoli su giornali e riviste.
b) Un'altra perplessità nasce dal fatto che anche se l'avvocato si fosse limitato a indicare solo nome e cognome nulla avrebbe impedito ai lettori di trovare i recapiti online o nei diversi pubblici elenchi. In certi casi, poi, la sola indicazione di nome e cognome potrebbe generare confusione come nell'ipotesi tutt'altro che rara di omonimia.
c) Se si preclude a un avvocato di fare una pubblicità indiretta di questo tipo, si dovrebbe per coerenza precludere qualsiasi riferimento al foro in cui si esercita a chi pubblica saggi o manuali di diritto. Generamente la "quarta di copertina" di un libro serve proprio per dare informazioni sull'autore, sulla sua professione e sul luogo in cui esercita.
d) se si vieta questo tipo di pubblicità indiretta per gli avvocati rimarranno solo due possibilità "lecite" candidarsi e pubblicare manifesti elettorali (non a caso gli studi legali di chi si candida si riempiono in breve tempo di clienti), prendere parte a quei tanti circoli e club in cui si possono fare le 'conoscenze giuste'.
e) Una perplessità riguarda poi il possibile contrasto con la direttiva europea 2000/31/CE (c.d. direttiva sul commercio elettronico) che impone a tutti gli Stati membri di provvedere "affinché l'impiego di comunicazioni commerciali che costituiscono un servizio della società dell'informazione o ne sono parte, fornite da chi esercita una professione regolamentata, siano autorizzate nel rispetto delle regole professionali relative, in particolare, all'indipendenza, alla dignità, all'onore della professione, al segreto professionale e alla lealtà verso clienti e colleghi". Pubblicazione i riferimenti del proprio studio (che non sono certo cosa segreta) accanto al proprio nominativo su un articolo giornalistico non sembra possa costituire violazione delle regole professionali, né con riferimento all'indipendenza, alla dignità, all'onore, né tanto meno al segreto professionale o alla lealtà verso clienti e verso i colleghi (posto che chiunque può essere messo nelle medesime condizioni di scrivere articoli e/o gestire una rubrica giornalistica). A me sembra, ma lascio a voi la parola, che la sentenza confligga con la direttiva europea.
f) Consentitemi un'ultima considerazione (del tutto personale): sanzionare un avvocato per il solo fatto di aver aggiunto al proprio nome anche un suo recapito e fingere di non conoscere quel "sottobosco" di concorrenza sleale che caratterizza alcuni settori della professione come l'infortunistica (tanto per dirne una), dove si intrecciano accordi tra agenti, carrozzieri e tal volta anche periti, a me personalmente fa venire il voltastomaco. A chi non è capitato poi (occupandosi di penale) di sentirsi dire da un cliente che una guardia carceraria gli aveva consigliato a quale avvocato rivolgersi?
In questo scenario non sarebbe meglio colpire chi è davvero sleale piuttosto che allargare le maglie di un divieto di accaparramento, sempre più anacronistico e non in linea con il resto del mondo? E poi non dimentichiamo che il Cnf è stato di recente pesantemente sanzionato dal Garante per la concorrenza e il mercato proprio per le limitazioni alla libera concorrenza (vedi: "Maximulta da oltre 912mila euro al CNF per le limitazioni alla libera concorrenza"). Una cosa che dovrebbe farci riflettere.
Ma veniamo al dunque: voi cosa pensate di questo provvedimento? Siete d'accordo con il Cnf?
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