di Raffaele Vairo - Sulla questione concernente l'introduzione nel nostro ordinamento del reato di clandestinità la Corte Costituzionale si è pronunciata respingendo centinaia di ordinanze con le quali i giudici di pace di tutta Italia hanno formulato eccezioni di incostituzionalità.

A mio avviso, la Corte Costituzionale non ha saputo cogliere la gravità dell'introduzione di questa contravvenzione che, sotto il profilo della compatibilità del reato in questione con la nostra Costituzione, appare ingiusta e in contrasto con la tutela dei diritti umani.

Pertanto, formulo di seguito alcune considerazioni di natura strettamente giuridica.

La contravvenzione di cui all'art. 10-bis del D. Lgs. 25 luglio 1998, n.286, articolo aggiunto dalla lettera a) del sedicesimo comma dell'art. 1 della legge 15 luglio 2009, n. 94, sotto la rubrica "Ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato", punisce, con l'ammenda da € 5.000,00 a 10.000,00, lo straniero che fa ingresso o si trattiene nel territorio dello Stato, in quanto violerebbe le disposizioni del D.Lgs. 286/1998 nonchè le disposizioni di cui al comma 1 della legge 28 maggio 2007, n. 68 (Disciplina del soggiorno di breve durata degli stranieri per visite, affari, turismo e studio). 

La norma, quindi,: a) punisce, a titolo di contravvenzione e con una pena soltanto pecuniaria, l'ingresso e il soggiorno illegale  nel territorio dello Stato, per tale intendendosi quello normalmente qualificato come clandestino; b) per tale reato, secondo quanto statuisce l'ultimo inciso del primo comma del citato articolo 10-bis D.Lgs 286/1998, è esclusa l'applicazione dell'art. 162 del codice penale; c) il reato in questione è sottoposto alla condizione di procedibilità che lo straniero non sia effettivamente espulso o respinto.

E' facilmente intuibile che, trattandosi di un reato contravvenzionale, la sola pena pecuniaria prevista per la contravvenzione non costituirebbe un deterrente efficace per soggetti che sono spinti ad emigrare da condizioni di vita disperate, esponendo se stessi e i propri cari a gravi pericoli.

Sotto il profilo processuale la nuova norma, al terzo comma stabilisce che "al procedimento penale per il reato di cui al comma 1 si applicano le disposizioni di cui agli articoli 20-bis, 20-ter e 32-bis del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274"  e, cioè:

- La "presentazione immediata dell'imputato al giudizio" (art. 20 bis, introdotto dalla lettera b) del 17° comma dello stesso art. 1 della L. 94/2009;

- La "citazione contestuale dell'imputato in udienza" quando "ricorrono gravi e comprovate ragioni di urgenza che non consentono di attendere la fissazione dell'udienza ai sensi del comma 3 del medesimo articolo" (art. 20 ter, introdotto anch'esso dalla lettera b) del 17° comma dello stesso art. 1 della L. 94/2009);

- lo svolgimento del processo secondo una procedura simile al giudizio direttissimo (art. 32 bis, introdotto dalla lettera c) del 17° comma dello stesso art. 1 della L. 94/2009).

La nuova norma, sia sotto il profilo sostanziale che sotto quello processuale, appare in palese contrasto con i principi posti dagli artt. 3, 24, 25, 27 e 97 della Costituzione, per violazione dei principi di uguaglianza, ragionevolezza, proporzionalità ed offensività...

Sotto il profilo sostanziale, la norma ha configurato quale reato una mera condizione, quella di semplice irregolarità dello straniero che "di per sè, non è univocamente sintomatica di una pericolosità sociale".

Altro motivo di incostituzionalità della norma in esame è costituito dal disposto contenuto nell'ultimo inciso del primo comma dell'art. 10-bis del D.Lgs. 286/1998 che sancisce: "Al reato di cui al presente comma non si applica l'articolo 162 del codice penale". Tale disposto è in evidente contrasto con l'art. 3 della Costituzione per violazione del principio di uguaglianza davanti alla legge.

Infine, la pena prevista per il reato di clandestinità non si ispira al principio di proporzionalità e di ragionevolezza, in quanto la pena: (a) viene utilizzata pur in presenza di altri strumenti idonei al raggiungimento dello scopo; (b) nello specifico, la nuova figura di reato si sovrappone integralmente a quella dell'espulsione quale misura amministrativa.

Secondo un orientamento dottrinale, un fatto sarebbe da considerarsi reato quando è previsto come tale da una norma penale. Quindi, per la sussistenza del reato sarebbe sufficiente la realizzazione di un comportamento materiale corrispondente al fatto enunciato dalla norma incriminatrice, indipendentemente dalle conseguenze che ne possano derivare, anche nell'ipotesi che nessun bene tutelato dall'ordinamento sia stato leso o sia stato semplicemente posto in pericolo.

Un secondo indirizzo dottrinale, invece, ritiene che, perchè un fatto possa qualificarsi quale reato, non è sufficiente che si realizzi in un mero comportamento vietato dalla norma penale, ma occorre che esso sia idoneo ad incidere nel mondo esterno (al soggetto agente) in modo tale da pregiudicare (a livello di danno o di pericolo) un quid cui il contesto sociale ed il diritto penale attribuiscano un significato di valore (bene giuridico). Più precisamente, la teoria del reato richiede che il fatto incriminato sia, oltre che tipico(principio di legalità) e colpevole (principio di colpevolezza), anche offensivo (principio di offensività).

Pur nella diversità degli indirizzi dottrinari, i giuristi dell'uno o dell'altro indirizzo manifestano, tuttavia, la propensione nell'individuare negli articoli 13, 21, 25, 27 della Costituzione il fondamento costituzionale dei principi sopra enunciati.

L'art. 13 Cost. individua nella libertà personale il bene supremo della persona; libertà che può essere limitata con la norma penale soltanto per tutelare beni di pari rango costituzionale da determinate modalità di aggressione; l'art. 25, comma 2, Cost. indica nel fatto e, quindi, nella condotta materiale ed offensiva, il comportamento punibile per legge; l'art. 27, comma 3, Cost., pone in evidenza la funzione educativa della pena che verrebbe compromessa nell'ipotesi di previsione di una sanzione penale a carico di un soggetto resosi responsabile di una mera disobbedienza, in quanto il soggetto che abbia commesso un fatto inoffensivo non riuscirebbe a comprendere la ragione della punizione; infine, l'art. 21 Cost., che tutela la libera manifestazione del pensiero.

Il principio di offensività esige che, affinchè possa configurarsi un reato, occorre un comportamento che, oltre a corrispondere alla fattispecie descritta dalla norma, sia colpevole ed offensivo, idoneo, cioè, a ledere o porre in pericolo un bene costituzionalmente significativo o comunque non incompatibile con la Costituzione. In altri termini, il reato è da ritenere come un fatto umano che aggredisce un bene giuridico meritevole di protezione da parte di un legislatore che si muove nel quadro dei valori costituzionali (nullum crimen sine iniuria), semprechè la misura dell'aggressione sia tale da far apparire inevitabile il ricorso alla pena e le sanzioni di tipo non penale non siano sufficienti a garantire un'efficace tutela.

Nello stesso senso sembra muoversi la giurisprudenza della Corte Costituzionale, secondo la quale: a) "il mancato possesso del titolo abilitativo alla permanenza nello Stato" da parte dello straniero non può considerarsi reato, in quanto non è di per sè idoneo a produrre una particolare pericolosità sociale (Corte Cost., 16.03.2007, n. 78); b) la mera condizione di clandestino non può considerarsi idonea a porre seriamente in pericolo la sicurezza pubblica.

Sicchè la criminalizzazione di tale condizione stabilita dalla norma in esame si rivela priva di fondamento giustificativo.

Il legislatore, quindi, non può delineare fattispecie incriminatrici che prescindano dall'esistenza dell'offesa ad un bene giuridico, come è, invece, avvenuto con l'introduzione nel nostro ordinamento del reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato. Del resto, il fondamento giuridico di quanto testè affermato lo si rinviene, oltre che nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, anche nel secondo comma dell'art. 49 c.p. che esclude la punibilità  "quando, per la inidoneità dell'azione  o per la inesistenza dell'oggetto di essa, è impossibile l'evento dannoso o pericoloso".

Al riguardo, ad esempio, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 519 del 1995, ha dichiarato incostituzionale il reato di mendicità, evidenziando che  " non è conforme al canone di ragionevolezza e travalica i limiti assegnati dalla Costituzione al legislatore, il ricorso non necessitato alla tutela penale in difesa di beni giuridici, quali la tranquillità e l'ordine pubblico, che non sono posti in pericolo da manifestazioni non invasive di mera mendicità, consistenti in una semplice richiesta di aiuto".

Ne consegue che il concetto di bene giuridico: a) impone un limite nelle scelte del legislatore; b) deve guidare il giudice il quale, nell'interpretare la legge, dovrà preferire, tra i significati che si possono attribuire alla lettera della legge, quello che meglio si armonizza con il bene giuridico tutelato.

Altra norma sospetta di incostituzionalità, per violazione dell'art. 3 della Costituzione, è quella contenuta nell'ultimo inciso del primo comma dell'art. 1 della legge n. 94/2009, secondo cui "Al reato di cui al presente comma non si applica l'articolo 162 del codice penale". Al riguardo il giudice osserva che nessuna norma dell'ordinamento giuridico discrimina il cittadino dallo straniero irregolare, per cui l'esclusione di quest'ultimo dalla possibilità di utilizzare l'istituto dell'oblazione, creando una sorta di regime speciale che riguarda un'intera categoria di soggetti (gli stranieri clandestini)  viola il principio di uguaglianza sancito, appunto, dall'art. 3 della Costituzione. Chi scrive, in ciò confortato dalla Cassazione (Cass. Pen., n. 5811/2004), ritiene fondatamente che il ricorso all'oblazione sia un un vero e proprio diritto soggettivo per l'imputato di contravvenzione punita con la sola pena dell'ammenda, con conseguente estinzione del reato; ebbene, tale diritto viene negato immotivatamente al migrante clandestino solo perchè tale.

Sotto il profilo sanzionatorio, sorgono dubbi sui caratteri della pena prevista per questa contravvenzione.

In effetti, la norma non tiene affatto conto della ratio che deve rivestire la sanzione penale che, nel rispetto del principio di proporzionalità, dev'essere utilizzata solo in mancanza di altri strumenti idonei al raggiungimento dello scopo mentre, nel caso di specie, la nuova figura di reato si sovrappone integralmente a quella dell'espulsione quale misura amministrativa, il che mette in luce la sua assoluta irragionevolezza.

Quanto alla tesi dei difensori della norma in questione, secondo la quale il reato diclandestinità sarebbe previsto da altre legislazioni di Stati Europei (ad esempio Germania, Francia e Gran Bretagna), va chiarito che tale tesi non tiene conto delle sostanziali differenze esistenti tra i vari ordinamenti, "non ultima la diversità in tema di obbligatorietà dell'azione penale, non prevista generalmente nei sistemi giuridici anglossani mentre da noi è consacrata nella Costituzione - in tutti tali Stati non vi è alcuna sovrapposizione tra sanzione penale e sanzione amministrativa ed il procedimento penale garantisce un risultato non ottonibile per le vie amministrative come avviene, invece, nel nostro Ordinamento".

di Raffaele Vairo - E-mail: raffaelevairo@libero.it - Tel. 043472778 Mobile 327.1857728.


Altri articoli che potrebbero interessarti:
In evidenza oggi: