di Licia Albertazzi - Corte di Cassazione Civile, sezione lavoro, sentenza n. 20715 del 10 Settembre 2013. Niente mobbing: è legittimo il licenziamento

in tronco del lavoratore che sfrutta la rete telematica ed i contatti aziendali per promuovere propria campagna antisocietaria. Lo ha stabilito la Suprema Corte nella sentenza in oggetto. Avverso tale sentenza l'interessato ha proposto ricorso al giudice del lavoro. Secondo il Tribunale - decisione poi confermata anche in appello - il lavoratore licenziato non si sarebbe limitato a sostenere le ragioni del sindacato, ma avrebbe posto in essere vera e propria azione individuale autonoma. Lo stesso, a mezzo della propria password aziendale, si sarebbe infatti introdotto nella intranet aziendale ed avrebbe inviato email di propaganda a tutti i contatti ivi contenuti. Al di là dell'azione singola, l'azienda ha dimostrato come tale comportamento andava ad inserirsi nell'ambito di una più ampia condotta determinata da posizioni radicali assunte dal singolo avverso la direzione aziendale. Contro la sentenza d'appello l'interessato propone ricorso in Cassazione.

La Suprema Corte ha confermato la pronuncia del giudice del merito. Rilevando come fosse ininfluente ai fini civili l'intervenuta pronuncia di assoluzione sul piano penale (procedimento che si era svolto in parallelo rispetto al ricorso avverso il licenziamento; principio dell'autonomia dei processi) ha confermato che la Cassazione stessa - confermando la ragionevolezza e la completezza di motivazione della sentenza d'appello - non può sindacare la decisione del giudice del merito, il quale ha ritenuto opportuno confermare il licenziamento del dipendente, poiché anche se "i fatti addebitati al dipendente non fossero di gravità tale da giustificare un licenziamento per giusta causa erano idonei, comunque, ad integrare un giusto motivo soggettivo di recesso".


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