La Corte di Cassazione, con sentenza n. 16452 dell'1 luglio 2013, ha affermato che la richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione interrompe il termine di prescrizione quinquennale.  Nel caso preso in esame dalla Suprema Corte, i giudici di merito avevano accolto la domanda di una lavoratrice volta al risarcimento dei danni subiti in occasione di un infortunio sul lavoro occorsole presso l'azienda, ove era stata investita da un muletto precisando che il termine di prescrizione quinquennale era stato interrotto dalla notifica del primo ricorso introduttivo del giudizio e con la richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione prima della scadenza del quinquennio e che il datore di lavoro aveva violato le prescrizioni poste dall'art. 33 D.Lgs. 626/94 in materia di collocazione e segnalazione delle vie di circolazione dei pedoni e dei veicoli, non potendosi considerare imprevedibile ed abnorme la condotta della lavoratrice.. 

Nello specifico i Giudici di legittimità, rigettando il ricorso della Società che chiedeva il riconoscimento della prescrizione del diritto al risarcimento del danno, hanno precisato che "il secondo comma dell'art. 410 c.p.c. dispone che la comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza. Attesa, inoltre, la natura ricettizia degli atti interruttivi della prescrizione e considerato che il legislatore parla di interruzione e non di sospensione della prescrizione, deve ritenersi che la comunicazione che interrompe la prescrizione e sospende il decorso di ogni termine di decadenza è quella fatta al datore di lavoro.".

La decisione impugnata aveva evidenziato che la richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione era stata indirizzata non solo alla DPL ma anche alla società prima della scadenza del quinquennio e tanto basta per disattendere la censura.

I Giudici di Piazza Cavour hanno poi ricordato che "configurando l'art. 2087 cod. civ. un'ipotesi di responsabilità oggettiva - in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento - ai fini dell'accertamento della responsabilità del datore di lavoro, incombe al lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure di allegare la novicità dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, senza che occorra, in mancanza di qualsivoglia disposizione in tal senso, anche la indicazione delle norme antinfortunistiche violate o delle misure non adottate, mentre, quando il lavoratore abbia provato quelle circostanze, grava sul datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno".

Coerentemente la Corte del merito - si legge nella sentenza - "nel confermare la decisione di primo grado con riguardo alla responsabilità datoriale, ha rilevato, richiamando peraltro la relazione dell'Ispettore dell'ASL, confermata in sede di escussione testimoniale, la violazione delle prescrizioni poste dall'art. 33 del d.lgs. 626/1994 riguardanti la collocazione e la segnalazione delle vie di circolazione dei pedoni e dei veicoli. Ha ritenuto pertanto raggiunta la prova della inadeguatezza degli strumenti di prevenzione predisposti dal datore di lavoro..

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