"Perché l'incapacità naturale del dipendente possa rilevare come causa di annullamento delle sue dimissioni, non è necessario che si abbia la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, ma è sufficiente che tali facoltà risultino diminuite in modo tale da impedire od ostacolare una seria valutazione dell'atto ed una volontà cosciente, facendo quindi venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all'atto che sta per compiere". Questo il principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione che, con sentenza n. 17977 del 1° settembre 2011, ha respinto il ricorso di una Società avverso la sentenza
con cui la Corte d'Appello annullava le dimissioni del lavoratore che erano state date in condizioni di incapacità di intendere e di volere, per il grave sconvolgimento determinato dalla situazione di non poter raggiungere, non avendo ottenuto le ferie richieste, il padre gravemente malato. La Suprema Corte precisa come l'accertamento di merito sia conforme al principio di diritto enunciato e non suscettibile di riesame in sede di legittimità avendo la Corte d'Appello rilevato che il lavoratore aveva fornito seri indizi di un possibile suo stato di incapacità naturale e riportandosi alle risultanze della CTU secondo la quale il lavoratore si è dimesso "non essendo stato in grado - essendo in preda ad una "reazione a corto-circuito" di natura patologica in lui emersa sulla base condizionante di un cronico e polimorfo disturbo di personalità - di rendersi conto di quel che faceva, tantomeno di esprimere al riguardo una valida decisionalità".

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