di Licia Albertazzi - Corte di Cassazione Civile, sezione lavoro, sentenza n. 8804 del 16 Aprile 2014. Per ottenere il risarcimento del danno alla persona causato da mobbing aziendale (dunque, per provare la sussistenza stessa della fattispecie) il lavoratore deve provare che esiste un nesso causale tra le vessazioni subite durante l'attività lavorativa e la patologia insorta (in questo caso, infarto cardiaco). 

La fattispecie del mobbing trova il suo fondamento giuridico nell'art. 2087 codice civile (tutela delle condizioni di lavoro), secondo cui "l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro".

Nel caso di specie, secondo il ricorrente, l'infarto cardiaco sarebbe insorto a causa dell'azione combinata del sovraccarico di lavoro, delle vessazioni subite dal datore sul luogo di lavoro e della sottoposizione ad alcuni procedimenti penali (successivamente archiviati) legati all'attività lavorativa. 

Proponeva dunque domanda volta ad ottenere il risarcimento del danno, ma questa veniva respinta sia in primo che in secondo grado di giudizio. Ricorreva dunque in Cassazione. La Suprema Corte tuttavia sottolinea come "il ricorrente non aveva assolto al proprio preliminare onere di dimostrare l'esistenza di una condotta datoriale inadempiente agli obblighi che derivano dall'osservanza delle misure che debbono essere adottate per tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro". Nel merito, il lavoratore non ha dimostrato l'esistenza del danno alla salute connesso con la nocività dell'ambiente di lavoro; solo a fronte della prova del nesso causale spetta al datore di lavoro dimostrare di aver adottato tutte le misure in grado di scongiurare il verificarsi del danno.

Il ricorso è rigettato. Qui di seguito il testo della sentenza.


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