di Licia AlbertazziCorte di Cassazione Civile, sezione sesta, sentenza n. 8228 del 4 Aprile 2013.
Il trattamento di fine rapporto (TFR) è una somma dovuta dal datore al lavoratore subordinato, calcolata proporzionalmente al periodo di impiego. Essa ha natura retributiva (calcolata cioè sulla base degli stipendi percepiti) e consiste in un accantonamento periodico effettuato dal datore di lavoro e dovuto al dipendente in caso di cessazione, a qualsiasi titolo, del rapporto di lavoro subordinato. In alcuni casi, espressamente previsti per legge (art. 2120 codice civile) il lavoratore può chiedere un anticipo del TFR

nella misura massima del 70% della quota accantonata al momento della presentazione della domanda.

La previdenza complementare invece è un istituto con caratteristiche completamente diverse. Diverse aziende istituiscono esse stesse fondi pensione o si affidano a gestori di fondi pensione integrativa al fine di garantire un sussidio ulteriore al lavoratore che raggiunge i requisiti pensionistici. Essa ha natura contributivo - previdenziale (calcolata cioè sui contributi effettivamente versati) e non retributiva e, proprio per questo motivo, non concorre alla formazione del TFR

. La Cassazione interviene appunto per negare l'imputazione dei versamenti effettuati dal datore di lavoro a favore del dipendente a titolo di accantonamento a fondo di previdenza integrativa. Tale materia, oltre che dal codice civile, è regolata in parte dai contratti collettivi nazionali, i quali stabiliscono determinate percentuali di versamento a carico del lavoratore e dell'azienda. In conclusione, le caratteristiche intrinseche dell'atto - versamento da parte del datore di lavoro di quota a titolo di contributo previdenziale integrativo - escludono decisamente che gli importi incrementati possano andare ad aumentare la somma accantonata come TFR.

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