La sentenza n. 95/2022 della Corte Costituzionale ha dichiarato eccessiva la multa da 5000 a 10.000 euro dell'art. 726 c.p perché il nudismo è condotta di disvalore limitato

Topless: non è lesivo

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Intero, quasi un vestito, oppure con uno slip alto a coprire metà dell'addome: questi gli elementi della moda mare degli anni '50, che oggi ha lasciato il posto a bikini sempre più ristretti e a costumi da bagno che lasciano ben poco all'immaginazione. E dal bikini al topless il passo è stato davvero breve e poco faticoso, tanto che ormai sui litorali nostrani vedere un seno nudo in spiaggia non è più uno shock.

Se in passato, infatti, fioccavano i procedimenti penali contro le sostenitrici del seno nudo sul bagnasciuga, già a partire dalla fine degli anni '70 si è diffusa una certa tolleranza che determina l'assoluzione delle imputate. Anche se è solo nel 2000, con la celebre sentenza n. 3557 della Corte di Cassazione, che l'esibizione del seno nudo femminile verrà espressamente qualificata come un comportamento non lesivo, comunemente accettato ed entrato nel costume sociale.

Pertanto, la giurisprudenza italiana è ormai assestata sulla tolleranza pressoché unanime del fenomeno, come dimostra la celebre assoluzione nel 2010 di una donna romana denunciata da una mamma con l'accusa di atti osceni in luogo pubblico per aver spalmato la crema solare in spiaggia sul seno nudo. Non solo, dopo l'archiviazione la denunciante ha dovuto anche sborsare una somma pari a 25mila euro per risarcire i danni morali e d'immagine subiti dalla bagnante a causa del clamore mediatico provocato dalla denuncia.

Nudo integrale in spiaggia

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Tutto cambia, invece, quando viene a considerarsi il nudo integrale in spiaggia.

La normativa italiana non prevede espressamente un divieto in tal senso, tuttavia la giurisprudenza è più volte intervenuta a chiarire che la nudità integrale è ammessa e tollerata nelle spiagge riservate ai nudisti o da essi solitamente frequentate, poiché la nudità dei genitali assume un diverso rilievo penale in funzione del contesto oggettivo e soggettivo in cui è concretamente inserita.

Una delle sentenze più rilevanti in materia è la n. 28990/2012 della terza sezione penale della Corte di Cassazione, che ha confermato la sanzione di 1.200 euro a carico di un uomo colpevole di aver preso la tintarella "come mamma l'ha fatto" su una spiaggia di Taormina non dedicata ai nudisti. Per i giudici la nudità integrale non è da considerarsi tollerata a causa dell'evolversi del comune sentimento, ma anzi risulta idonea a provocare turbamento nella comunità attuale (leggi: "Cassazione: può costar caro il costume adamitico, se la spiaggia non è per nudisti").


Gli amanti del costume "adamitico", dunque, stando alla sentenza, sono liberi di frequentare campi di nudisti, riservati a soggetti consenzienti, ma non luoghi pubblici o esposti al pubblico, come avvenuto per la spiaggia scelta dall'uomo.

Per evitare di incappare in una denuncia, meglio per i bagnanti "a corpo libero" selezionare con cura la meta delle proprie vacanze o le spiagge sulle quali prendere il sole.

Parti intime in pubblico? Disvalore limitato

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Si, perché il nudo integrale dal 2016, anno in cui è intervenuta la depenalizzazione del reato di atti contrari alla pubblica decenza, in virtù del dlgs n. 8/2016 del 15 gennaio, è stato punito con la severa sanzione pecuniaria minima di 5000 euro e massima di 10.000. Sanzione che la Corte Costituzionale, con le sentenza n. 95 del 14 aprile 2022 ha ritenuto eccessiva.

Nella motivazione della sentenza la Consulta ha infatti spiegato che: "il principio della proporzionalità delle sanzioni rispetto alla gravità dell'illecito si applica anche al di fuori dei confini della responsabilità penale, e in particolare alla materia delle sanzioni amministrative a carattere punitivo" e che "Ai fini della verifica della proporzionalità della cornice edittale censurata, dunque, occorre anzitutto valutare il grado di disvalore dell'illecito sanzionato. Valutazione, questa, invero non del tutto agevole, in relazione alla laconicità del testo dell'art. 726 cod. pen., che si limita a vietare il compimento di «atti contrari alla pubblica decenza» in luogo pubblico, ovvero aperto o esposto al pubblico. Come già si è osservato, la giurisprudenza di legittimità formatasi su tale disposizione consente di identificarne l'ambito applicativo in condotte lesive del «normale sentimento di costumatezza», che generano «fastidio e riprovazione»: condotte quasi invariabilmente associate, nella prassi, alla scopertura di parti intime del corpo, attuata però senza convogliare messaggi di natura sessuale, che determinerebbero l'inquadramento nel più grave illecito di atti osceni. Tra tali condotte, compare con una certa frequenza nei repertori giurisprudenziali proprio l'urinare in un luogo pubblico: condotta il cui disvalore potrebbe oggi essere percepito, più che nella momentanea scopertura di una parte intima del corpo, nel fatto stesso di insudiciare luoghi abitualmente frequentati dal pubblico. In ogni caso, si tratta di condotte certamente in grado di ingenerare molestia e fastidio, ma altrettanto indubbiamente di disvalore limitato, risolvendosi - in definitiva - in una espressione di trascuratezza rispetto alle regole di buona educazione proprie di una civile convivenza. A fronte di un simile limitato disvalore, la previsione di una sanzione minima di 5.000 euro e di una massima di 10.000 euro non può che apparire manifestamente sproporzionata."

Da qui la decisione finale, ossia la dichiarazione dell'illegittimità costituzionale dell'art. 726 del codice penale "come sostituito dall'art. 2, comma 6, del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell'articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014, n. 67), nella parte in cui prevede la sanzione amministrativa pecuniaria - da euro 5.000 a euro 10.000 - anziché - da euro 51 a euro 309".


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