A detta dell'imputato era stata la parte lesa ad andargli incontro con un bastone, mentre lui si era soltanto difeso con l'unico mezzo a disposizione

La sera prima litiga con il ragazzo di un'amica, intervenuto nel diverbio tra i due per difenderla, e subisce una testata. L'indomani si presenta a casa della ragazza e trovando anche il fidanzato minaccia di ucciderlo, e quando lui scende dal camion impugnando una mazza di lavoro, tira fuori il coltello. Nel frangente, la ragazza si frappone tra i due e fa cadere il bastone al fidanzato. L'altro ne approfitta subito per sferrargli una coltellata al fianco. Poi, non contento, annusa l'arma dicendo "che buon profumo ha il tuo sangue".

L'avversario finisce ricoverato in ospedale con prognosi di trenta giorni, mentre l'uomo viene condannato, in primo e in secondo grado, a 4 anni di reclusione per tentato omicidio e porto abusivo di coltello a serramanico con lama di 9 cm.

La vicenda approda in Cassazione, cui l'imputato si rivolge chiedendo l'annullamento della sentenza della Corte d'Appello di Milano invocando la legittima difesa. A suo dire, infatti, era stata la parte lesa ad andargli incontro con un bastone, mentre lui si era soltanto difeso con l'unico mezzo a disposizione, per evitare di essere colpito a sua volta, non avendo peraltro alcuna intenzione di uccidere e avendo pronunciato le frasi minacciose in profondo stato di alterazione psichica.

Ma di fronte ai giudici di piazza Cavour l'ipotesi non regge.

Concordando con la corte territoriale, infatti, la prima sezione penale della S.C., nella sentenza n. 52052 del 15 dicembre 2014, hanno ritenuto, sulla base della dinamica dei fatti, di tutta evidenza che l'imputato non avesse agito in stato di legittima difesa, avendo invece approfittato del fatto che la parte lesa non avesse più un bastone per raggiungerla e sferrare un colpo di coltello con l'intenzione di uccidere.

Ai fini dell'integrazione dell'ipotesi di omicidio tentato, infatti, hanno affermato gli Ermellini, "la prova del dolo - ove manchino esplicite ammissioni da parte dell'imputato - ha natura essenzialmente indiretta, dovendo essere desunta da elementi esterni e, in particolare, da quei dati della condotta che per la loro non equivoca potenzialità offensiva sono i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall'agente".

Ad assumere valore determinante per l'accertamento della sussistenza dell'"animus necandi" è, dunque, "l'idoneità dell'azione la quale va apprezzata in concreto, senza essere condizionata dagli effetti realmente raggiunti, perchè altrimenti l'azione, per non aver conseguito l'evento, sarebbe sempre inidonea nel delitto tentato: il giudizio di idoneità è una prognosi, formulata ‘ex post', con riferimento alla situazione così come presentatasi al colpevole al momento dell'azione, in base alle condizioni umanamente prevedibili del caso particolare".

E, nel caso in esame, la S.C. non ha dubbi: l'animus necandi, infatti, è desunto "da elementi logicamente significativi, quali il tipo di arma utilizzata, la violenza del colpo di coltello e soprattutto la zona corporea attinta - nonché ha concluso la Corte rigettando il ricorso - le frasi pronunciate dall'imputato prima e subito dopo la commissione del fatto".


Altri articoli che potrebbero interessarti:
In evidenza oggi: