Principio di diritto
In tema di responsabilità sanitaria, grava sul paziente l'onere di provare, secondo il criterio del "più probabile che non", l'esistenza del nesso causale tra la condotta del sanitario e il danno lamentato. In presenza di contrastanti indicazioni della letteratura scientifica, la scelta terapeutica del medico non è censurabile ove risulti ragionevolmente prudente, equilibrata e rientrante tra le opzioni scientificamente accreditate al momento della prestazione. Non è consentito in sede di legittimità sollecitare una rivalutazione del merito o sostituire la valutazione del giudice con una diversa opzione scientifica.
Svolgimento del processo
La vicenda trae origine dall'azione risarcitoria proposta da un paziente nei confronti del medico curante e della struttura sanitaria presso cui era stato sottoposto a intervento chirurgico ortopedico. L'attore deduceva di aver subito una grave trombosi agli arti inferiori a causa dell'errata prescrizione della terapia farmacologica antitrombotica nel periodo post-operatorio, lamentando in particolare l'eccessiva brevità della durata del trattamento.
Il Tribunale di Roma rigettava la domanda, ritenendo non dimostrati né la colpa del sanitario né il nesso di causalità tra la prescrizione farmacologica e l'evento trombotico. La decisione si fondava, in larga parte, sulle conclusioni della consulenza tecnica d'ufficio, che aveva escluso profili di imperizia e rilevato la conformità della terapia alle indicazioni scientifiche disponibili.
La Corte d'Appello di Roma, con sentenza n. 5754/2022, confermava integralmente la pronuncia di primo grado, sottolineando l'adeguatezza e la prudenza della condotta terapeutica del medico, anche alla luce delle divergenze esistenti nella letteratura scientifica circa la durata ottimale della terapia antitrombotica post-operatoria.
Avverso tale sentenza il paziente proponeva ricorso per cassazione, articolato in tre motivi, cui resistevano il medico e la struttura sanitaria.
Considerazioni di diritto
Con il primo motivo, il ricorrente denunciava un vizio di motivazione, sostenendo che la Corte d'Appello avesse omesso di spiegare le ragioni per cui l'erronea ricostruzione dei fatti operata dal Tribunale fosse stata ritenuta irrilevante ai fini della decisione sul nesso causale. La Suprema Corte ha ritenuto infondata la censura, evidenziando come il giudice di merito avesse fornito una motivazione logica e coerente, chiarendo che anche una diversa ricostruzione fattuale non avrebbe inciso sull'assenza di prova del rapporto eziologico tra terapia farmacologica e trombosi.
Con il secondo motivo, il ricorrente lamentava la violazione delle regole sull'onere della prova e sull'utilizzo delle presunzioni, sostenendo che la Corte territoriale non avesse applicato correttamente il criterio del "più probabile che non". La Cassazione ha dichiarato il motivo inammissibile, rilevando che la tesi del ricorrente si fondava su un ragionamento meramente congetturale, secondo cui la manifestazione della trombosi sarebbe stata automaticamente riconducibile alla durata insufficiente della terapia.
La Corte ha invece valorizzato l'approfondita motivazione dei giudici di merito, fondata sulle risultanze della C.T.U., che aveva evidenziato come il farmaco prescritto, il dosaggio e la durata del trattamento rientrassero nel range delle opzioni terapeutiche accreditate, in un contesto di significativa incertezza scientifica. In tale quadro, la scelta del medico era stata qualificata come prudente e cautelativa, non potendosi ravvisare alcun profilo di colpa.
Con il terzo motivo, infine, il ricorrente ribadiva le proprie argomentazioni relative alla mancata esecuzione degli esami di controllo da parte del paziente e lamentava un'ulteriore carenza motivazionale sulla correttezza della terapia. Anche tale censura è stata respinta, poiché diretta, ancora una volta, a ottenere una rivalutazione del merito e delle scelte terapeutiche, non consentita in sede di legittimità.
Conclusioni giuridiche
La pronuncia in commento (Cass. n. 22089/2025) riveste particolare interesse in materia di responsabilità sanitaria, poiché ribadisce con chiarezza i limiti dell'accertamento giudiziale quando l'evento dannoso si colloca in un ambito caratterizzato da incertezza scientifica. La Corte di Cassazione conferma che, in tali casi, non è sufficiente dimostrare il verificarsi dell'evento avverso per fondare la responsabilità del sanitario, occorrendo una prova rigorosa del nesso causale secondo il criterio del "più probabile che non".
Di rilievo è anche l'affermazione secondo cui la scelta terapeutica non può essere censurata quando si collochi all'interno di un ventaglio di opzioni scientificamente accreditate, pur se tra loro divergenti. La decisione valorizza, dunque, il principio della non sindacabilità ex post delle scelte cliniche ragionevoli, evitando che il giudizio di responsabilità si trasformi in una valutazione meramente retrospettiva dell'esito della cura.
La sentenza si pone infine come monito contro l'uso improprio delle presunzioni e contro i tentativi di traslare surrettiziamente sul sanitario l'onere di dimostrare l'assenza di colpa, riaffermando l'equilibrio del sistema probatorio nei giudizi di malpractice medica.
Avv. Rosanna Pedullà
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