La Cassazione ha confermato la condanna nei confronti di una donna perché il suo reale obiettivo era umiliare e perseguitare l'ex marito

Reato di stalking

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Con sentenza di primo e secondo grado una donna è stata ritenuta responsabile dei reati di cui agli articoli 612 bis primo e secondo comma, 595, 635, 56 e 682 c.p., e per questo condannata alla pena di anni uno di reclusione oltre al risarcimento del danno cagionato alla parte civile. L'imputata ha reiteratamente posto in essere condotte di molestia e minaccia consistite anche in ossessive e ripetute chiamate telefoniche nel corso delle quali pronunciava frasi ingiuriose nei confronti della parte offesa. Tale comportamento, che si è ripetuto anche in presenza, aveva per oggetto la richiesta di somme dovute a titolo di sostentamento così come determinato nel corso del giudizio di separazione. Oltre che nei confronti dell'ex marito, la donna ha posto in essere simili atti anche nei riguardi della cognata, citofonandole con insistenza, imbrattandole con vernice spray la saracinesca del negozio, ed ingenerando un perdurante e grave stato di paura per la loro incolumità, tale da costringere l'ex marito a modificare le proprie abitudini di vita.

La tesi difensiva

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L'imputata è ricorsa per Cassazione sostenendo l'errata qualificazione giuridica dei suoi comportamenti, che ha ritenuto coincidere in un esercizio arbitrario delle proprie ragioni e non in quello di stalking. Secondo la difesa della donna, in entrambi i gradi di giudizio sarebbe stata trascurata l'assenza del dolo generico, ossia la volontà di porre in essere condotte di minaccia e molestie tese a cagionare nelle vittime un perdurante stato di ansia e paura per la propria incolumità, così da indurle a modificare le proprie abitudini di vita. La donna, in un evidente stato di conflitto con l'ex coniuge, derivante dalla mancata corresponsione delle somme dovute a titolo di mantenimento, avrebbe agito in una condizione di grave preoccupazione per le condizioni della figlia, malata e bisognosa di cure, tale da causare e condizionare le sue reazioni rispetto all'inadempimento dell'ex marito.

Pretese economiche pretesto per perseguitare l'ex

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Il delitto di cui all'articolo 612 bis c.p. ha natura di reato abituale, ed in quanto tale è la condotta complessiva ad assumere rilevanza. L'essenza dell'incriminazione non si coglie nello spettro degli atti considerati tipici, bensì nella loro reiterazione. La corte territoriale ha evidenziato il complesso di atti, di varia natura, posti in essere dalla donna nei confronti della parte offesa, tra cui appostamenti, minacce, offese, insulti, messaggi offensivi pubblicati sui social network, ripetute e ossessive telefonate, danneggiamenti. Atti che hanno trovato conferma nelle dichiarazioni dei testi ma anche in quelle dell'imputata, che ha cercato di giustificare i propri comportamenti con le difficoltà economiche conseguenti al mancato versamento dell'assegno di mantenimento. Comportamenti che hanno condizionato la vita dell'uomo al punto da costringerlo a modificare le proprie abitudini.

Sono così risultati correttamente applicati i consolidati principi in tema di atti persecutori. La persona offesa ha dimostrato il suo grave e perdurante stato di ansia e paura attraverso le proprie dichiarazioni e con i suoi comportamenti conseguenti alla condotta dell'ex moglie. La Corte territoriale ha quindi ricostruito i fatti in modo logico, sia in ordine all'elemento oggetto del reato sia rispetto a quello soggettivo.

La Corte, inoltre, ha esattamente valorizzato la diversità di oggetto e bene giuridico tutelato dall'art. 612 bis c.p. da un lato, e dagli artt. 392 e 393 c.p. dall'altro, osservando come le pretese economiche rivendicate dalla ricorrente fossero un mero pretesto per umiliare e perseguitare l'ex marito. Non vi è stato, nei comportamenti della donna, il tentativo di recuperare le somme cui ha diritto. Le condotte persecutorie hanno di gran lunga travalicato le mere rivendicazioni economiche, acquisendo preminente rilievo rispetto a queste ultime.

La decisione della Cassazione

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Per le ragioni di cui sopra, con la sentenza numero 9878 del 7 marzo 2024 (sotto allegata), la quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha confermato il provvedimento impugnato e, per l'effetto, condannato la donna anche al pagamento delle spese processuali.

Andrea Pedicone

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Scarica pdf Cass n. 9878/2024

Foto: 123rf.com
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