Le conseguenze penali della violazione delle norme sul conflitto di interessi nell'agire della pubblica amministrazione

Interessi privati in contrasto con l'interesse pubblico

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Secondo l'interpretazione della giurisprudenza amministrativa, la situazione di conflitto di interessi si configura quando le decisioni che richiedono imparzialità di giudizio siano adottate da un pubblico funzionario che abbia, anche solo potenzialmente, interessi privati in contrasto con l'interesse pubblico alla cui cura è preposto.

La gestione del conflitto di interessi è, dunque, espressione dei principi costituzionali di buon andamento e imparzialità dell'azione amministrativa.

Tale contrasto di interessi generalmente determina nel soggetto attore la lesione di interessi altrui o in ipotesi specifiche di interessi pubblici e la peculiarità delle condotte hanno fatto in modo che il legislatore contemplasse peculiari ipotesi di reato in cui è proprio la posizione del soggetto agente che compie atti seguendo il suo interesse personale a determinare la lesione dei beni giuridici tutelati.

Ciononostante nel nostro codice penale non compare una norma univoca volta ad indicare quando un determinato comportamento generi conflitto di interesse in quanto varie e variamente titolate appaiono le ipotesi in cui in virtù di tale contrapposizione di interessi il soggetto agente commette l'uno o l'altro reato.

Le norme sul conflitto di interessi

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Prima di esaminare le ipotesi delittuose è opportuno agganciarsi alle norme che invece definiscono il conflitto di interessi.

All'uopo è opportuno ricorrere all'art. 6 bis della l.241/1990 in cui si legge che i responsabili dei procedimenti ed i titolari degli uffici competenti devono astenersi dallo svolgimento delle attività loro preposte "in caso di conflitto di interessi" segnalando l'esistenza anche solo potenziale della situazione de quo. Tale norma è stata inserita dalla legge anticorruzione n. 190 del 2012 ed ha una funzione di monito in quanto obbliga il pubblico funzionario a segnalare i casi in cui il suo operato possa essere pregiudicato da interessi idonei a minare l'imparzialità della propria attività amministrativa.

Inoltre, fermi restando gli obblighi di trasparenza previsti da leggi o regolamenti, il dipendente, all'atto dell'assegnazione all'ufficio deve, ai sensi dell'articolo 6, comma 1, del d.P.R. n. 62/2013, dichiarare l'insussistenza di situazioni di conflitto di interessi, informando per iscritto il dirigente dell'ufficio di tutti i rapporti, diretti o indiretti, di collaborazione con soggetti privati, in qualunque modo retribuiti, che lo stesso abbia o abbia avuto negli ultimi tre anni (c.d. "dichiarazione sostitutiva sul conflitto di interessi"). Tale comunicazione deve riguardare anche i rapporti intercorsi o attuali con soggetti privati, egli è così tenuto a specificare se i soggetti privati abbiano interessi in attività o decisioni inerenti all'ufficio, con riferimento alle questioni a lui affidate.

Da quanto specificato discende che ogniqualvolta il soggetto incaricato degli oneri su esposti non dovesse provvedere nei modi indicati dalla norma di riferimento potrà incorrere in sanzioni in quanto le relazioni esistenti con altri soggetti potrebbero pregiudicare il suo corretto operato. In determinati settori le ipotesi così prospettate assumono un' importanza rilevante, si pensi alla materia degli appalti. In tal caso si ha conflitto di interessi ove il personale della stazione appaltante, o per conto di essa, interviene nello svolgimento della procedura di aggiudicazione in modo da influenzarne il risultato. Invero l'attuale codice ha specificatamente definito il conflitto di interessi all'interno dell'art. 42 d.lgs. 50/2016. La norma de quo è intervenuta proprio al fine di evitare che in merito a procedure "delicate" quali quelle di aggiudicazione degli appalti o di concessioni, possano esservi attività volte a determinare distorsioni della concorrenza .Ebbene, ciò premesso, è così possibile esaminare le ipotesi in cui il comportamento violativo di siffatte previsioni determini oltre che una responsabilità disciplinare del dipendente pubblico anche una responsabilità penale. In primo luogo è importante precisare che l'interesse privato che verosimilmente potrebbe porsi in contrasto con l'interesse pubblico può essere di natura finanziaria, economica o derivante da particolari legami di parentela, affinità, convivenza o frequentazione abituale con i soggetti destinatari dell'azione amministrativa.

Pertanto nell'ipotesi in cui tale conflitto si configuri il reo sarà perseguibile ai sensi dell'art. 323 c.p. il quale punisce il reato di abuso d'ufficio.

Abuso d'ufficio (art. 323 c.p.)

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Ai sensi della norma in esame è punito il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni violando specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o un danno ingiusto. Il reato di abuso di ufficio, ha da sempre posto delicati problemi di "contatto" tra diritto penale, ed in particolare la funzione giudiziaria, e l'operato della pubblica amministrazione, in quanto da tempo gli studiosi hanno dimostrato una certa preoccupazione derivante dalla possibilità, per il giudice penale, di "penetrare", anche in maniera piuttosto rilevante, all'interno dell'attività discrezionale della pubblica amministrazione. La fattispecie di abuso di ufficio è stata interessata da una recente ed importante evoluzione normativa che ne ha intaccato alcuni aspetti degni di nota. In primo luogo è mutata la struttura oggettiva, il reato di abuso di ufficio è stato trasformato da reato a consumazione anticipata a dolo specifico a reato di evento a dolo generico, nel senso che ai fini della consumazione, non è più sufficiente che il pubblico funzionario abbia agito con il fine di vantaggio o danno, ma occorre che vi sia l'effettiva produzione dell'uno o dell'altro. La seconda modifica riguarda l'elemento psicologico del reato, attualmente per la configurazione si richiede il dolo intenzionale. L'ulteriore modifica riguarda invece il vantaggio, il quale dovrà essere patrimoniale e doveva essere prodotto in violazione di norme di legge o di regolamento. Invero anche quest'ultima formulazione è stata modificata in quanto a seguito del d.l. 76/2020 convertito in legge n.120/2020 (c.d. Decreto Semplificazioni) l'area del penalmente rilevante non viene più ricondotta, come in passato, alla violazione di "norme di legge o di regolamento", ma viene delimitata alla inosservanza di "specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge", così escludendo che la fattispecie possa trovare applicazione nel caso di violazione di norme di rango secondario come i regolamenti, ma anche nell'ipotesi di norme di rango primario qualora non derivino violazioni di specifiche regole di condotte imposte al funzionario dalla legge medesima. A seguito della modifica normativa la configurabilità del reato di abuso di ufficio si ha solo nel caso di violazione di specifiche regole di condotta dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero ai casi in cui la violazione abbia ad oggetto una determinata regola di condotta rispetto alla quale la legge abbia preordinato l'an, il quomodo, il quid ed il quando dell'azione amministrativa, ed ai casi riguardanti l'inosservanza di una regola di condotta attinente allo svolgimento di un potere che, in astratto è discrezionale ma concretamente diviene vincolato per le scelte effettuate dal pubblico funzionario prima dell'adozione dell'atto o del comportamento dal quale scaturisce il reato. Il fondamento della modifica è da rinvenire, in primo luogo, nella necessità di far fronte alla possibile inerzia dei pubblici funzionari fermati dall'assumere decisioni di interesse pubblico per paura di incorrere in violazioni di legge, l'obiettivo, infatti, è stato quello di eliminare dal penalmente rilevante l'eccesso di potere, sulla scia già introdotta dalla legge n. 234 del 1997. Quanto al bene giuridico possono individuarsi due teorie. Un primo orientamento sostiene che il bene giuridico sia da individuare nel buon andamento e nell'imparzialità della pubblica amministrazione. Laddove per" buon andamento" si intende che il pubblico ufficiale si attivi in modo tale da assicurare un normale funzionamento dell'apparato amministrativo, facendo moderato esercizio delle pubbliche funzioni in altre parole, è necessario che egli persegua le finalità della pubblica amministrazione. Il pubblico ufficiale dovrà essere inoltre imparziale evitando di preferire" gli interessi propri o altrui" a quelli dell'ente , non potendo i poteri in suo possesso essere utilizzati per generare disuguaglianze tra i cittadini. Tale orientamento sembra dirsi prevalente in dottrina , pertanto da tali considerazioni discende che la persona offesa dal reato rimane solo la pubblica amministrazione, il privato invece sarebbe il soggetto danneggiato. Tale conclusione darebbe la possibilità al privato di costituirsi parte civile ma non di partecipare alle indagini preliminari. Sul punto, però, non può trascurarsi un orientamento giurisprudenziale volto a precisare che il reato di abuso d'ufficio è idoneo a ledere, oltre all'interesse pubblico, al buon andamento ,alla trasparenza della pubblica amministrazione e all'imparzialità dei pubblici funzionari, anche l'interesse del privato a non essere turbato nei propri diritti costituzionalmente garantiti e a non essere danneggiato dal comportamento illegittimo e ingiusto del pubblico ufficiale. Pertanto ne deriverebbe che il soggetto al quale la condotta abusiva abbia arrecato un danno riveste la qualità di persona offesa dal reato, legittimato non solo a costituirsi parte civile quando il processo abbia inizio , ma anche a procedere ai sensi degli art. 409 e 410 c.p.p. Queste considerazioni hanno spinto parte della giurisprudenza a sostenere che essendo il reato de quo finalizzato ad arrecare anche un danno ingiusto esso potrebbe dirsi plurioffensivo in quanto l'ulteriore interesse da tutelare sarebbe rinvenibile nella tutela del patrimonio del terzo turbato nei propri diritti costituzionalmente garantiti. In virtù di tale considerazione i soggetti passivi sarebbe sia la p.a. che il privato. Ritornando alla condotta lesiva, come si evince dalla norma la condotta punita riguarda non solo la violazione di specifiche regole, appositamente definite, ma anche il caso in cui il p.u. ometta di astenersi in presenza di interessi più volte citati. Ebbene l'art. 6 del codice del comportamento definisce espressamente i casi in cui il dipendente in presenza di interessi in conflitto debba astenersi,il riferimento agli "altri casi" consente di attribuire un rilievo a doveri di astensione non necessariamente previsti da legge, anche quando non considerino un conflitto di interessi propri del pubblico funzionario con un prossimo congiunto in senso penalistico, bensì altre situazioni potenzialmente influenti sul buon andamento del procedimento . Come specificato il reato è commesso se il reo procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio ovvero arreca ad altri un danno ingiusto. Se pure le condotte possono essere alternative è necessario che siano ingiuste ,per cui il vantaggio e il danno devono essere prodotti no iure. Quanto all'ingiustizia del vantaggio e del danno si sono contrapposti due orientamenti.Per una prima tesi da un atto illegittimo discenderebbero effetti contra ius e dunque l'ingiustizia sarebbe espressa. Secondo un' altra tesi invece non potrebbe farsi discendere l'ingiustizia del vantaggio dalla illegittimità della condotta ma sarebbe necessaria una doppia ingiustizia, pertanto ingiusta deve essere la condotta e ingiusto deve essere l'evento del vantaggio patrimoniale. Oltre all'ipotesi di ravvisabilità di conflitto di interessi posto in essere dal pubblico ufficiale, il conflitto può aversi anche in un' ulteriore ipotesi indicata nel codice civile.

Infedeltà patrimoniale (art. 2634 c.c.)

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Pertanto ai sensi dell'art. 2634 c.c. sono puniti con la reclusione gli amministratori, i direttori generali e i liquidatori, che, avendo un interesse in conflitto con quello della società, al fine di procurare a sè o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio, compiono o concorrano a deliberare atti di disposizione dei beni sociali, cagionando intenzionalmente alla società un danno patrimoniale. Prima di esaminare i caratteri del reato è opportuno fornire una definizione dell'interesse che può dirsi in conflitto e dunque fare cenno all'interesse sociale.

Tradizionalmente, fra gli studiosi del diritto societario, si suole distinguere fra le teorie istituzionalistiche e teorie contrattualistiche dell'interesse sociale. La fondamentale differenza fra le due impostazioni risiede nel fatto che, secondo le teorie istituzionalistiche, l'interesse sociale riguarda l'impresa sociale considerata come autonomo soggetto essa si caratterizza per essere indipendente e superiore sia all'interesse dei singoli soci sia alla somma degli interessi dei soci, diversamente, le teorie contrattualistiche spostano l'accento sull'identificazione di un interesse oggettivo e identificano l'interesse sociale con l'interesse dei soli soci proiettato sull'interesse finale della società. Tale ultima teoria sembra attualmente prevalere. La fattispecie de quo rientra tra reati societari i quali sono posti al di fuori del codice penale quasi a volerne sottolineare la natura peculiare rispetto ad altre fattispecie.

In tale ipotesi i soggetti preposti alla cura del patrimonio della società favoriscono i propri interessi a discapito dell'interesse societario. In tal senso è proprio la prevalenza di detto interesse appunto contrapposto a determinare la lesione del bene giuridico rinvenibile nella salvaguardia del patrimonio della società. La nozione di conflitto di interessi coincide in tal caso non già con una mera contrapposizione di interessi economici tra posizioni ma deve essere tale che a fronte di interessi dicotomici tra i soggetti vi sia un concreto pericolo per il patrimonio sociale. Il conflitto infatti deve essere oggettivamente valutabile oltre che reale ed effettivo. Pertanto a fronte di una condotta volta a danneggiare il patrimonio occorre altresì la verificazione di un evento costituito dalla determinazione di un danno patrimoniale. Il conflitto di interessi è elemento del reato cui spetta il ruolo di espellere dall'area del penalmente rilevante tutte quelle ipotesi che non rappresentano un pericolo concreto per il patrimonio sociale e ciò anche nelle ipotesi in cui l'atto di gestione effettivamente assunto abbia provocato un danno patrimoniale. Infatti, la sola verificazione di un danno patrimoniale causato da un atto di disposizione di beni sociali non esaurisce la dimensione del danno al bene giuridico protetto, posto che nello svolgimento dell'attività societaria il rischio d'impresa rende fisiologica l'esistenza di atti di disposizione dei beni sociali che possono provocare un il danno.

Quanto all'elemento soggettivo è previsto il dolo specifico di procurare vantaggi unito al dolo intenzionale relativo all'evento del reato. Ebbene al fine di avvicinarci alla conclusione è interessante esaminare l'ultimo comma il quale contempla la c.d. teoria dei vantaggi compensativi prevedendo che in ogni caso non è ingiusto il profitto della società collegata o del gruppo, se compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili derivanti dal collegamento o dall'appartenenza al gruppo.

Attraverso l'eliminazione della natura ingiusta del profitto il legislatore ha escluso l'incriminabilità di condotte determinanti vantaggi compensativi. La dottrina più autorevole ritiene pertanto che il legislatore abbia formulato tale norma per evitare che vengano qualificati penalmente rilevanti atti che considerati singolarmente avvantaggiano una società a danno di un'altra ma che si inseriscono in un più ampio disegno del gruppo caratterizzato da stabilità ed equilibrio.

Avv. Trotta Francesca

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