La Suprema Corte torna sul tema del consenso informato, precisandone i contorni e le modalità applicative, nonché le conseguenze in caso di mancato rispetto dell'obbligo da parte dei sanitari

Consenso informato: il punto della Corte di Cassazione

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Il consenso libero e informato è volto a garantire la libertà di autodeterminazione terapeutica dell'individuo e costituisce un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi, consentendogli di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico o anche di rifiutare (in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale) la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, salvo che ricorra uno stato di necessità.

Tale consenso non può mai essere presunto o tacito, ma deve essere sempre espressamente fornito, dopo aver ricevuto un'adeguata informazione, anch'essa esplicita (laddove presuntiva può essere invece la prova che un consenso informato sia stato dato effettivamente e in modo esplicito), e il relativo onere ricade sulla struttura e sul medico. La mancanza del consenso informato è idonea a generare un danno non patrimoniale con conseguente obbligo di risarcimento.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, terza sezione civile, nella sentenza n. 18283/2021 (qui sotto allegata), provvedimento ricco di riferimenti giurisprudenziali e ben articolato, con cui è stato accolto il ricorso di un paziente che aveva avanzato richiesta di risarcimento danni, contro l'Azienda Ospedaliera e il medico oculista che lo aveva in cura, respinta sia in prime che in seconde cure.


La pretesa risarcitoria del ricorrente si fonda sulla condotta asseritamente negligente del medico oculista che gli aveva somministrato una terapia farmacologica al di fuori del protocollo medico e senza monitorarlo prima e dopo il periodo di trattamento. Cura che gli aveva tuttavia provocato un'insufficienza renale. Innanzi agli Ermellini, sostiene tra l'altro di non essere stato correttamente informato, altrimenti avrebbe potuto scegliere di non proseguire il percorso terapeutico suggerito, anche in dosaggi inferiori, e decidere di preservare la funzionalità epatica in luogo di quella visiva.

Consenso informato e trattamento medico: concetti distinti

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La Cassazione rammenta il consolidato orientamento (cfr. Cass. n. 32124/2019) secondo cui "l'acquisizione da parte del medico del consenso informato costituisce prestazione altra e diversa da quella dell'intervento medico richiestogli, assumendo autonoma rilevanza ai fini dell'eventuale responsabilità risarcitoria in caso di mancata prestazione da parte del paziente".


Si tratta, dunque, di due distinti diritti. Da un lato c'è il consenso informato, che attiene al diritto fondamentale della persona all'espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico (cfr. Corte Cost., 438/2008), e quindi alla libera e consapevole autodeterminazione del paziente, atteso che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge (quest'ultima non potrà in ogni caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana ai sensi dell'art. 32, comma 2, della Costituzione).


Il trattamento medico terapeutico, invece, ha riguardo alla tutela del (diverso) diritto fondamentale alla salute. Di conseguenza, l'autonoma rilevanza della condotta di adempimento della dovuta prestazione medica ne impone l'autonoma valutazione rispetto alla vicenda dell'acquisizione del consenso informato, dovendo al riguardo invero accertarsi se le conseguenze dannose successivamente verificatesi siano, avuto riguardo al criterio del più probabile che non, da considerarsi ad essa causalmente astrette.

In cosa consiste l'obbligo di consenso informato

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La Suprema Corte precisa come l'obbligo di consenso informato attenga all'informazione circa le prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente viene sottoposto, al fine di porlo in condizione di consapevolmente consentirvi.


Nel dettaglio, questa dovrà riguardare il possibile verificarsi dei rischi di un esito negativo dell'intervento e di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente, ma anche il possibile esito di mera "inalterazione" delle condizioni di salute, ovvero il possibile mancato miglioramento, costituente oggetto della prestazione cui il medico­ specialista è tenuto e che il paziente può legittimamente attendersi quale normale esito della diligente esecuzione della convenuta prestazione professionale.


La struttura e il medico hanno dunque "il dovere di informare il paziente in ordine alla natura dell'intervento, a suoi rischi, alla portata dei possibili e probabili risultati conseguibili nonché delle implicazioni verificabili, esprimendosi in termini adatti al livello culturale del paziente interlocutore, adottando un linguaggio a lui comprensibile, secondo il relativo stato soggettivo e il grado delle conoscenze specifiche di cui dispone".

Obbligo della struttura e del sanitario

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Al riguardo, la Cassazione ha in passato precisato che "il consenso informato va acquisito anche qualora la probabilità di verificazione dell'evento sia così scarsa da essere prossima al fortuito o, al contrario, sia così alta da renderne certo il suo accadimento, poiché la valutazione dei rischi appartiene al solo titolare del diritto esposto e il professionista o la struttura sanitaria non possono omettere di fornirgli tutte le dovute informazioni".


L'obbligo di acquisire il consenso informato dal paziente è a carico della struttura e del sanitario, il quale, una volta richiesto dal paziente dell'esecuzione di un determinato trattamento, decide in piena autonomia secondo la lex artis di accogliere la richiesta e di darvi corso.


A fronte dell'allegazione di inadempimento da parte del paziente, sarà dunque onere della struttura e del medico provare l'adempimento dell'obbligazione di fornirgli un'informazione completa ed effettiva sul trattamento sanitario e sulle sue conseguenze, senza che sia dato presumere il rilascio del consenso informato sulla base delle qualità personali del paziente, potendo esse incidere unicamente sulle modalità dell'informazione, la quale deve sostanziarsi in spiegazioni dettagliate e adeguate al livello culturale del paziente, con l'adozione di un linguaggio che tenga conto del suo particolare stato soggettivo e del grado delle conoscenze specifiche di cui dispone.


Ancora, la Cassazione precisa che struttura e medico vengono meno all'obbligo su di loro gravante non solo qualora omettano del tutto di riferire della natura della cura prospettata, dei relativi rischi e delle possibilità di successo, ma anche se il consenso del paziente venga acquisito con modalità improprie.

Risarcimento del danno

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Tornando alla vicenda in esame, coglie nel segno la censura secondo cui non è stato dimostrato l'assolvimento da parte del medico dell'onere sul medesimo incombente di fornire un'informazione completa ed effettiva sul trattamento sanitario e sulle sue conseguenze.


Trattandosi, nel caso di specie, di danno non patrimoniale, anche da violazione del consenso informato, la Cassazione rammenta che la prova del medesimo potrà essere fornita dal danneggiato con ogni mezzo e, pertanto, anche per presunzioni.

Quanto al danno non patrimoniale, il cui ristoro (diversamente da quello patrimoniale) non può mai corrispondere alla relativa esatta commisurazione, imponendosene pertanto sempre la valutazione equitativa, "spetta al giudice di merito accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul patrimonio e sul valore persona si siano verificate, e provvedendo al relativo integrale ristoro".

Sarà necessario all'uopo un prudente contemperamento dei vari fattori di probabile incidenza sul danno nel caso concreto e dovrà essere dato adeguatamente conto in motivazione dell'operata valutazione, così da rendere evidente il percorso logico seguito dl giudice nella propria determinazione e consentire il sindacato del rispetto dei principi del danno effettivo e dell'integralità del risarcimento.

Prudente valutazione del giudice

Nei casi in cui risulti dimostrata l'esistenza di un danno risarcibile certo (e non meramente eventuale o ipotetico) e vi sia impossibilità o estrema difficoltà di prova nel relativo preciso ammontare, la Suprema Corte sottolinea come la liquidazione equitativa dei danni sarà rimessa dall'art. 1226 c.c. al prudente criterio valutativo del giudice di merito: ciò avviene non soltanto quando la determinazione del relativo ammontare sia impossibile, ma anche qualora la stessa, in relazione alle peculiarità del caso concreto, si presenti particolarmente difficoltosa.


Il giudice potrà ricorrere al criterio della liquidazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c., ove ne sussistano le condizioni, anche senza domanda di parte, trattandosi di criterio rimesso al suo prudente apprezzamento, e tale facoltà potrà essere esercitata d'ufficio pure dal giudice di appello.



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