Per la Cassazione, commette reato il marito che con violenza sottrae alla moglie il cellulare per scovare prove della sua infedeltà

Reato sottrarre il cellulare alla moglie per scovare prove dell'infedeltà

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Indebita intrusione nella sfera privata altrui, sottrarre e guardare il cellulare della partner al fine di trovare prove dell'infedeltà della donna. Il fatto che si viva insieme e si sia sposati non giustifica l'impossessamento dello smartphone della moglie o della convivente per controllare se al suo interno siano presenti dati in grado di dimostrare la violazione dell'obbligo di fedeltà che scaturisce dal matrimonio. Queste le conclusioni della Cassazione nella sentenza n. 8821/2021 (sotto allegata) che definisce la vicenda sotto descritta.

Rapina e lesioni per il marito spione

Il giudice dell'impugnazione conferma la condanna dell'imputato in ordine ai reati di rapina e lesioni ai danni della moglie. All'uomo viene contestato l'impossessamento con violenza del cellulare della moglie, alla quale, sottraendolo con forza, ha provocato lesioni.

Lesioni e sottrazione del telefono

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L'imputato però propone ricorso in Cassazione per contestare la decisione della Corte, sollevando in particolare le seguenti doglianze.

  • Prima di tutto il soggetto agente contesta la violazione degli articoli 22, 43, 44 e 628 del codice penale perché la Corte ha individuato il giusto profitto dell'uomo nella volontà di controllare il cellulare della moglie per scovare la prova del suo rapporto extraconiugale. La Corte però non ha considerato il diritto dello stesso a ricercare prove della violazione del dovere matrimoniale della fedeltà da parte della consorte. Copiosa giurisprudenza infatti non considera violazione della privacy il gesto di controllare il cellulare del coniuge, se finalizzato a cercare prove dell'infedeltà. La convivenza infatti genera un consenso tacito alla conoscenza delle comunicazioni personali del partner con cui si convive. Per queste ragioni l'imputato
    è incorso nell'errore di considerare illecita la sua iniziativa.
  • In secondo luogo contesta la versione dei fatti della persona offesa, la quale ha dichiarato che la sottrazione del cellulare si è realizzata con violenza o minaccia. La realtà è che il ricorrente avrebbe prima preso il cellulare della moglie e poi, dopo averla inseguita sul posto di lavoro, per reazione a quanto appena scoperto, l'avrebbe colpita. Il fatto che il marito abbia picchiato la moglie sul lavoro dopo averla inseguita e le abbia provocato lesioni è provato dalle dichiarazioni della sua datrice. Non è però dimostrato che le lesioni siano riconducibili alla volontà dell'uomo di sottrarre il telefono.

Indebita intrusione della sfera privata altrui spiare il cellulare della moglie

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La Corte di Cassazione con la sentenza n. 8821/2021 dichiara il ricorso inammissibile per le seguenti ragioni. La sentenza impugnata, contrariamente a quanto sostenuto dall'imputato, è correttamente motivata.

Il primo motivo, con cui il ricorrente adduce la liceità dell'impossessamento del cellulare della moglie, risulta contrario a quanto affermato da giurisprudenza ormai consolidata, ossia che: "l'impossessamento del telefono contro la volontà della donna integra una condotta antigiuridica, e l'ingiusto profitto consiste nell'indebita intrusione nella sfera di riservatezza della vittima, con la conseguente violazione del diritto di autodeterminazione nella sfera sessuale, che non ammette intrusione da parte di terzi e nemmeno del coniuge." Il profitto che deriva dal reato di rapina, infatti, si può infatti concretizzare anche in un'utilità, soddisfazione o godimento che l'agente si ripromette di realizzare con la propria azione, anche non immediatamente, purché questa sia il frutto della sottrazione violenta della cosa mobile alla persona che la detiene.

Inammissibile anche il secondo motivo. Le decisioni di primo e secondo grado hanno evidenziato la perfetta coerenza tra il racconto della persona offesa e quello della datrice di lavoro, contrariamente alla versione non verosimile data dall'imputato. La condotta dell'imputato deve essere qualificata pertanto come rapina e non come furto, perché realizzata con violenza alla persona. Si ricorda infatti, per completezza, che l'art. 628 c.p. che punisce il reato di rapina prevede che: "Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, mediante violenza alla persona o minaccia, s'impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 927 a euro 2.500."

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Scarica pdf Cassazione n. 8821/2021

Foto: 123rf.com
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