Almalaurea certifica la crisi occupazionale dei laureati in giurisprudenza. L'intervista di Cogita al professor Tommaso dalla Massara dell'Università di Verona

Laurea in giurisprudenza: l'indagine Almalaurea

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A cinque anni dalla laurea in giurisprudenza, i giuristi italiani riportano un tasso di occupazione "decisamente inferiore rispetto a quello rilevato per tutti gli altri gruppi disciplinari". Fra quanti lavorano, poco più della metà svolge una professione per cui è richiesta una laurea (non necessariamente la magistrale in Giurisprudenza) e lo stipendio medio risulta inferiore a 1.400 euro mensili. Così la XXII indagine Almalaurea certifica la crisi occupazionale dei laureati in Giurisprudenza.

Eurostat: Italia penultima in Europa per occupazione dei laureati

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I dati Almalaurea non sono gli unici che dovrebbero fare riflettere sul presente e sul futuro del nostro Paese. Secondo il rapporto dell'Ufficio statistico europeo, su dati 2019, l'Italia è al penultimo posto in Europa per occupazione dei giovani con un titolo d'istruzione terziaria. Con solo il 64,9% di occupati a tre anni dal titolo, il nostro Paese riporta un dato assimilabile a quello della Grecia e ampiamente inferiore a quello della Romania, dove invece lavora l'87,6% dei giovani laureati (Eurostat, Employment rates of recent graduates, 2019). Dati drammatici da cui ripartire, per ripensare tutto.

Dalla Massara: "Una dispersione di energie imperdonabile"

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Tommaso dalla Massara, professore ordinario del Dipartimento di Scienze Giuridiche dell'Università di Verona, direttore scientifico del Festival del Placement Univerò, ha risposto alle domande di Cogita (Coordinamento giovani giuristi italiani) sulle riforme necessarie per favorire l'occupazione dei laureati in Giurisprudenza. L'intervista è stata realizzata dall'autore, in qualità di socio fondatore e responsabile dell'Area Università di Cogita.

Professore, il Rapporto Almalaurea 2020 dipinge uno scenario molto critico della condizione occupazionale dei laureati in giurisprudenza. A cinque anni dal conseguimento del titolo, solo il 78,2% dei laureati magistrali risulta occupato; è il dato peggiore fra tutti i gruppi disciplinari. Male anche la retribuzione media e la coerenza del lavoro svolto rispetto agli studi compiuti. Come commenta questi dati?

"Si tratta di un'occasione sprecata. Una dispersione di energie imperdonabile per il Paese: energie dell'università ed energie degli studenti. La laurea in giurisprudenza presenta ancor oggi enormi potenzialità, ma è illusorio pensare che rimanga sempre uguale, nei contenuti e negli obiettivi formativi, rispetto a quand'era intesa come la laurea omnibus delle "classi dirigenti" del Paese. E si badi bene che non sono affatto un "modernista": o meglio, credo ancora in un certo modello tradizionale di laurea in giurisprudenza, ma penso anche che non debba essere l'unico."

La convinzione che giurisprudenza "apra tutte le porte", insomma, non ha retto alla prova dei fatti. Quali sono realmente, o quali dovrebbero essere, gli sbocchi lavorativi del corso di laurea in giurisprudenza?

"Occorrerebbe, a mio giudizio, distinguere più chiaramente il percorso che conduce alle professioni legali (avvocatura, magistratura, notariato), a fronte degli altri percorsi. Le professioni legali esigono un livello elevato di competenze in ambito sostanziale e processuale, accrescimento culturale, ma anche un alto senso della dignità della professione: questo è il modello tradizionale. Accanto alle professioni legali, vi è un mercato molto frastagliato, rispetto al quale l'autonomia degli Atenei dovrebbe riuscire a costruire percorsi vicini alla richiesta di lavoro. Però insisto: la formazione che serve per fare l'avvocato ad alti livelli è nettamente differenziata rispetto a quella che viene richiesta, per esempio, per un lavoro gestionale in azienda. Conoscere a fondo il processo civile è indispensabile al primo, mentre può servire a ben poco al secondo. È miope non riconoscere la differenza e gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Sforniamo laureati "a mezza cottura", che devono reinventarsi il giorno dopo la laurea."

Il mondo delle professioni legali sta conoscendo un periodo di crisi. Negli ultimi trent'anni, l'avvocatura ha visto quintuplicare il numero di professionisti iscritti all'Albo (dai 50.000 del 1988, ai 250.000 del 2018) e molti Studi legali erano in serie difficoltà economiche già prima del Covid. Gli aspiranti magistrati o notai, dopo la laurea, devono affrontare altri lunghi anni di studi e di formazione senza alcuna garanzia occupazionale. Non sarebbe più giusta e ragionevole una selezione "a monte" come avviene per i medici? Il numero programmato può essere la soluzione?

"Per la laurea magistrale il numero programmato è la risposta più seria. E dopo la laurea, occorrerebbe ovviamente ripensare l'accesso alle professioni legali, cominciando proprio dall'avvocatura, che è quella in maggiore crisi. Ma ricordiamoci che i grandi studi legali hanno fatturati in costante crescita! E invece i piccoli studi non reggono le spese. E allora serve il numero programmato e poi un corso di studi molto serio. Al contempo, è chiaro che l'avvocatura va ridotta nei numeri e riportata a giusti livelli di prestigio e di redditività."

I detrattori del numero chiuso muovono diverse obiezioni: il calo spontaneo di iscritti, l'inadeguatezza di alcuni test, i costi della preparazione. Non da ultimo, l'idea che l'accesso all'università debba essere sempre libero e la selezione lasciata solo al mercato. Lei come risponderebbe? Il numero chiuso è amico o nemico degli studenti?

"Il numero programmato è il miglior amico degli studenti che cercano una preparazione seria e che abbiano ambizioni lavorative. Chi non investe nella propria formazione non riceverà nulla in cambio dal mondo del lavoro. Vorrei che l'accesso alla magistratura, al notariato e alla migliore avvocatura fosse davvero alla portata di tutti i laureati in giurisprudenza. Proprio perché li abbiamo selezionati prima e li abbiamo formati bene, anche facendoli faticare. Questo mi pare un discorso davvero democratico e meritocratico."

Parliamo dell'Università di Verona. Come delegato del Rettore all'orientamento e alle strategie occupazionali, Lei aveva fortemente voluto il numero programmato a giurisprudenza (introdotto nell'anno accademico 2018-2019). Com'è stata la Sua esperienza?

"L'introduzione del numero programmato è stata per me una scelta che faceva tutt'uno con la riforma della laurea magistrale: certezza di poter assicurare spazi e servizi di qualità e, per quanto riguarda la riforma, introduzione di percorsi mirati che rispondano il più possibile alla domanda di lavoro d'oggi; con la riforma abbiamo introdotto per esempio un percorso che si chiama "new industries", che replica i nuovi settori che vengono coltivati oggi nei grandi studi legali, quelli che rappresentano una scommessa anche in termini di redditività. Un altro percorso è dedicato alle professioni legali nella dimensione europea e internazionale. Questo è quello che io mi aspetterei se fossi studente."

Nelle scorse settimane, il ministro Manfredi ha posto il tema delle lauree professionalizzanti e abilitanti. Si preannuncia una stagione di riforme in materia di università, professioni e concorsi pubblici. Secondo Lei, come dovrà essere la nuova laurea in giurisprudenza?

"Se parliamo della laurea magistrale a ciclo unico, punterei su un percorso molto ambizioso, fortemente integrato con le professioni legali, fatto di laboratori, simulazioni, esperienze all'estero, ma anche tanta cultura, per evitare la banalizzazione di un approccio "ragionieristico". Insomma un percorso completo e tosto, percepito come oggi sembra esserlo quello di medicina. Però, alla fine, dovrebbero essere assicurati esiti lavorativi importanti. Se fossimo in Inghilterra, i laureati magistrali devono poter fare i barristers. Poi è chiaro che esistono anche i solicitors."

E le lauree triennali?

"Le lauree triennali meriterebbero di essere nettamente differenziate dalla magistrale. L'autonomia degli atenei dovrebbe consentire di costruire in maniera quasi sartoriale le triennali sulle esigenze del territorio oppure per specificità acquisite sul campo. Se mi trovo in Brianza e le aziende mi chiedono una formazione in materia di bilancio, non manco di darla. Se intendo connotare una certa sede per un'offerta formativa in ambito agroalimentare, punto a dare il massimo su quel fronte. Sulle triennali non vedrei l'esigenza del numero programmato. E vedrei invece una fortissima esigenza di stage e tirocini."

In attesa di una riforma, i dati occupazionali restano quelli che sono. Il rischio che tanti studenti, potenzialmente brillanti giuristi, perdano interesse negli studi o non possano più permettersi di proseguirli è obiettivamente alto. Che consiglio si sente di dare ai Suoi studenti?

"Lavorare con il diritto è probabilmente più bello che studiarlo: suggerirei agli studenti di tenere sempre viva la curiosità intellettuale e, aggiungerei, il senso di ambizione. A me piaceva affrontare gli esami con i professori che mi trasmettevano l'idea che davanti ci fosse una sfida. E poi però c'era la possibilità di essere premiati. Così si studia e si lavora."


Foto: 123rf.com
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