Praticanti avvocato e lavori forzati dinanzi alla Corte Europea dei Diritti Umani. Van der Mussele, italiano, avrebbe potuto vincere

Dott. Vittorio Corasaniti - 40 anni fa un giovane avvocato belga denunciava il suo Paese davanti alla Corte EDU, perché, a suo dire, il Belgio lo aveva obbligato ai lavori forzati durante la pratica forense. Oggi la questione torna ad essere attuale in Italia, specie nell'epoca in cui il Governo ha concesso una deroga per l'abilitazione della maggior parte dei professionisti del paese (ammessi direttamente alla prova orale) meno che ai praticanti avvocato, il cui progetto di vita e la cui vita stessa paiono essere più facilmente sacrificabili anche in epoca di pandemia. Prima di affrontare la questione attuale, tuttavia, è opportuno riassumere il caso giudiziario internazionale cui si è accennato, per poi intraprendere un ipotetico viaggio nel tempo insieme al protagonista della vicenda, fino ad arrivare in Italia ai tempi del coronavirus.

Il caso

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Van Der Mussele era un giovane praticante di Anversa, che per diventare avvocato aveva dovuto svolgere un tirocinio di 3 anni durante il quale gli erano stati assegnati 50 casi da seguire in qualità di difensore d'ufficio. Se avesse rifiutato, il Consiglio dell'Ordine territoriale avrebbe potuto prolungare la durata della pratica forense fino a 5 anni e cancellare il suo nome dall'elenco dei praticanti o, addirittura, respingere la sua domanda di ammissione all'albo per inadempimento integrale degli obblighi contemplati dall' art. 456, secondo e quarto comma del code judiciaire.

Adita la Corte EDU, Van der Mussele sosteneva di essere stato vittima di lavoro forzato proibito dall'art. 4 par. 2 della CEDU in quanto gli erano state assegnate mansioni che aveva espletato senza una giusta retribuzione e sotto la minaccia di sanzioni ingiuste.

Per valutare se il caso in esame rientrasse nella fattispecie di cui alla menzionata norma, che in realtà non fornisce una definizione specifica di lavoro forzato, ma si limita a dichiararne la proibizione, la Corte EDU decideva di ricorrere per interpretazione sistematica alla Convenzione n. 29 dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro concernente il lavoro forzato, il cui articolo 2 stabilisce che l'espressione "lavoro forzato o obbligatorio" indica "ogni lavoro o servizio preteso da una persona sotto minaccia di una pena qualunque e per il quale detta persona non si sia volontariamente offerta".

Applicando tale definizione al caso in esame, la Corte stabiliva che pur rinvenendosi la minaccia di un male ingiusto (la cancellazione dal registro dei praticanti e il respingimento della domanda di ammissione all'albo degli avvocati), mancava tuttavia il requisito dell'obbligatorietà necessario affinché si configuri il lavoro forzato o obbligatorio.

Il giovane praticante, infatti, aveva liberamente acconsentito a quel lavoro nella consapevolezza delle mansioni che avrebbe dovuto svolgere, mansioni a cui nessuno lo aveva obbligato e che, anzi, gli avevano garantito alcuni, seppur minimi, guadagni, senza vietargli di intraprendere altre attività di natura economica, a cui aveva potuto effettivamente dedicarsi.

Ritorno al futuro: 40 anni dopo, Van der Mussele praticante in Italia

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Orbene, occorre chiedersi cosa sarebbe successo se Van Der Mussele adisse oggi la Corte EDU, non già in qualità di praticante belga, bensì come praticante avvocato italiano, adducendo di essere vittima di lavori forzati o obbligatori nel contesto in cui superare le prove scritte per l'accesso alla professione forense è del tutto soggetto alla sorte.

Invero, sotto il profilo dell'obbligatorietà non si rinverrebbero particolari problemi interpretativi. Dopo le affermazioni del Ministro Bonafede in merito all'aleatorietà dell'esame di avvocato e la ormai pacifica constatazione della mancanza di accesso alla giustizia avverso le valutazioni negative delle commissioni esaminatrici, di cui hanno chiesto spiegazione persino le Nazioni Unite, è chiaro che il praticante non ammesso alla prova orale si ritrova, suo malgrado, in un contesto lavorativo a cui non ha liberamente acconsentito.

Si potrebbe obbiettare, allora, la mancanza del secondo requisito necessario per la configurazione del lavoro forzato, quello cioè della minaccia di una punizione. In verità, nessuno ha coartato la volontà del praticante con intimidazioni di alcun tipo: il nostro Van der Mussele sarebbe, infatti, libero di andare a svolgere il lavoro che più gli paia opportuno.

Eppure, questa conclusione non sembra del tutto logica da una triplice prospettiva giuridica, economica e psicologica.

Sotto il primo profilo, la legge forense 247/2012 stabilisce che il praticante:

- potrà non essere pagato (art. 41 c. 11);

- non potrà più gestire cause proprie (art. 41 c. 12);

- dovrà rispettare le norme del codice deontologico senza potersi difendere in proprio in caso di sanzione disciplinare (art. 42);

- dovrà sottoporsi a un esame di abilitazione del tutto aleatorio (art. 49).

Si tratta, in realtà, di una "legge gabbia" che confina il praticante in uno spazio lavorativo del tutto circoscritto e senza spazi di manovra.

L'aspetto giuridico ha ripercussioni in ambito economico almeno per due motivi: il primo riguarda l'impossibilità di pretendere un pagamento, stante la mancanza dell'obbligo effettivo a carico dell'avvocato presso cui il praticante svolga la pratica; il secondo concerne, invece, la possibilità di trovare e svolgere allo stesso tempo un altro lavoro, giacché, da una parte, l'abilitazione al patrocinio è stata abolita e, dall'altra, sussistono chiare limitazioni di carattere oggettivo.

A ciò si aggiunge un terzo aspetto, quello psicologico. Una volta concluso il tirocinio, infatti, il praticante avvocato ritrova sulle sue spalle almeno due tipi di debito moralmente vincolante: quello verso la famiglia che lo ha mantenuto durante gli studi e quello verso se stesso, che gli impone di uscire da un limbo professionale in cui non è più uno studente, ma non è nemmeno quel professionista che per anni ha voluto essere.

Questo aspetto psicologico è stato a lungo trascurato, anche in virtù del fatto che l'avvocatura italiana si basa ancora su regole patriarcali non scritte e a svantaggio dei più giovani (tema di cui la Corte EDU si era già occupata all'epoca della sentenza Van der Mussele c. Belgio).

Se così non fosse, il legislatore non avrebbe sentito la necessità di affermare il principio contrario nel primo articolo della legge forense (art. 1, c. 2 lett. d), secondo cui: "l'ordinamento forense […] favorisce l'ingresso alla professione di avvocato e l'accesso alla stessa, in particolare alle giovani generazioni, con criteri di valorizzazione del merito"), salvo poi limitarlo attraverso le norme già menzionate.

In questo senso, le istituzioni tra cui anche l'avvocatura continuano a riproporre archetipi ormai superati e in apparente contrasto addirittura con i diritti umani, come dimostra la recente richiesta di spiegazioni da parte del Comitato delle Nazioni Unite sui diritti economici, sociali e culturali in merito alla condizione dei praticanti avvocato in Italia.

Tuttavia, questi meccanismi non sono facilmente individuabili, poiché il contesto ne è intriso a tal punto da creare quella che in psicologia viene chiamata "perversione del legame", consistente in un equivoco o un imbroglio alla base della relazione tra il praticante avvocato e le istituzioni cui fa riferimento.

In un contesto in cui l'avvocato presso cui si svolge il tirocinio viene inavvertitamente chiamato "padrone", le istituzioni incaricate di formare e tutelare il praticante avvocato lo riducono in realtà a un ludopatico partecipante al gran gioco dell'abilitazione forense dietro promessa clientelare di riforma imminente dell'esame, mentre continuano a prorogare modalità e valutazioni di accesso alla professione del tutto assimilabili al trattamento crudele e degradante.

Si instaurano in questo modo i meccanismi proibiti dagli strumenti internazionali di protezione dei diritti umani, tra cui, per l'appunto, la già menzionata Convenzione n. 29 dell'ILO.

Nei fenomeni di sfruttamento, infatti, la perversione del legame finisce per creare quel meccanismo di "autosequestro" di cui aveva già parlato il Consiglio d'Europa durante la sessione ordinaria dell'Assemblea Parlamentare nel 2001.

Rapportato alla situazione del praticante avvocato, tuttavia, è necessario svolgere un passaggio (in questo caso giurisprudenziale) ulteriore, richiamando il caso Siliadin c. Francia, in merito al quale la Corte EDU ha dichiarato che la necessità di una "regolarizzazione" sociale ha diretta connessione con la "minaccia percepita" e con il lavoro forzato o obbligatorio.

Nel caso di specie, quindi, la minaccia percepita dal praticante sarebbe proprio quella di non riuscire a soddisfare le proprie necessità economiche e i debiti morali, aggravati dalla legislazione vigente e dal comportamento delle istituzioni che continuano ad accentuare la perversione del legame.

Sulla base del ragionamento pregresso, sarebbero quindi soddisfatti i requisiti essenziali stabiliti dall'art. 2 della Convenzione n. 29 dell'ILO per la configurazione del lavoro forzato di cui all'art. 4 par. 2 della CEDU, motivo per cui si ritiene che se Van der Mussele svolgesse oggi la pratica forense in Italia, avrebbe buone possibilità di risultare vittorioso innanzi alla Corte EDU.

Van der Mussele ai tempi del coronavirus

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Oltre agli aspetti già segnalati, vale la pena introdurre un altro elemento di estrema attualità che potrebbe contribuire al libero convincimento del giudice europeo dei diritti umani riguardo allo sfruttamento dei praticanti avvocato in Italia.

In ragione della pandemia in corso, infatti, il Ministro dell'Università e della Ricerca ha approvato con D.M. 57 del 29 aprile 2020 il passaggio diretto alla prova orale per numerose categorie professionali del paese.

Per quanto riguarda i praticanti avvocato, invece, il Governo ha stabilito con il recente cosiddetto D.L. Rilancio che le prove scritte della sessione 2019 verranno comunque corrette, potendo i commissari ricorrere agli strumenti telematici. Ciò significa che i risultati potrebbero essere comunicati oltre il consueto mese di giugno, con ritardo dell'inizio delle prove orali che comporterebbe la necessità per i candidati all'abilitazione di ripresentarsi in via cautelare alle prove scritte della sessione 2020 e con conseguente assembramento di migliaia di persone.

Oltre alle discriminazioni palesate dall'esecutivo, ambiguo è anche l'atteggiamento del legislatore che, come evidenziato in commissione giustizia, vuole garantire la qualità e la credibilità dell'avvocatura, ma propone di esonerare da responsabilità amministrativa, civile e penale i medici appena ammessi alla professione senza esame di abilitazione.

Resta quindi da capire fino a che punto i praticanti avvocato siano per lo Stato "sacrificabili", specie perché se durante l'emergenza sanitaria la struttura della pratica forense e dell'esame di abilitazione restassero tali, si sottoporrebbero migliaia di professionisti a un rischio eccessivo per l'integrità personale e, finanche, per la vita.


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