Per la Cassazione sono responsabili i medici che non hanno diagnosticato, in fase di prime dimissioni, il Morbo di Crohn da cui era affetto un ventenne poi deceduto

di Annamaria Villafrate - La Cassazione con l'ordinanza n. 4245/2020 (sotto allegata) accoglie due motivi del ricorso avanzati dai familiari di un ventenne, morto al termine di un secondo ricovero in cui è stato scoperto che il ragazzo era affetto dal morbo di Crohn e non da bulimia e ansia come diagnosticato nel corso di una precedente degenza. Per gli Ermellini la sentenza della Corte d'Appello, come del resto rilevato dai ricorrenti, è contraddittoria. Dapprima essa afferma infatti che non vi erano dati clinici al momento delle dimissioni dal primo ospedale in grado di attestare lo stato della malattia, poi però dichiara che la situazione del ragazzo non si era aggravata tra un ricovero e l'altro. Se è vero che i dati clinici mancanti sarebbero stati rilevanti per provare la presenza e lo stato della malattia, non si comprende perché allora la corte del gravame ha negato il supplemento di perizia, al fine di acquisire ulteriori elementi informativi che avrebbero potuto supportare maggiormente la decisione.

Decesso per morbo di Crohn, non per bulimia nervosa

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Un giovane di 20 anni viene ricoverato nel reparto di gastroenterologia per forti dolori addominali, di cui si lamenta da anni. A causa del dimagrimento progressivo e dello stato di deperimento del ragazzo, gli viene posizionato un catetere venoso centrale per alimentarlo. Il 20 agosto 2004 il giovane viene dimesso con la seguente diagnosi: "grave malnutrizione in paziente con sindrome da malassorbimento verosimilmente secondaria a progresso flogistico intestinale n.d.d. bulimia nervosa. Sindrome ansiosa." Quattro giorni dopo il ragazzo è sottoposto a un nuovo ricovero, ma questa volta gli viene diagnosticata "una grave malnutrizione da malassorbimento per morbo di Crhon." Viene quindi sottoposto a terapia e a nutrimento parenterale tramite CVC, che gli provoca un'infezione della linea venosa centrale. Nei giorni seguenti le condizioni peggiorano sempre di più tanto che il giovane muore a causa di un'embolia polmonare da infezione del CVC.

I genitori e le sorelle del defunto a questo punto decidono di citare in giudizio l'Azienda ospedaliera in cui il giovane è stato ricoverato la prima volta, per chiedere i danni, in proprio e in qualità di eredi, derivanti da imperizia medica, per la mancata tempestiva diagnosi del morbo di Crohn e di conseguenza per mancato tempestivo trattamento terapeutico adeguato. Il Tribunale però rigetta la domanda, non ravvisando la sussistenza del nesso di causa tra l'omissione diagnostico-terapeutica e il decesso. Gli attori appellano la sentenza perché ritengono che il giudice si sia discostato dalle conclusioni della CTU, e chiedono quindi l'integrazione della consulenza e l'ammissione di altri mezzi di prova, ma anche la corte d'appello respinge il gravame.

Colpa medica per condotta omissiva

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I parenti del deceduto a questo punto ricorrono in Cassazione, sollevando, tra gli altri, i seguenti motivi di ricorso.

Con il primo criticano la contraddittorietà della sentenza perché prima afferma che "non vi sono dati clinici attestanti quale fosse lo stato della malattia al momento delle dimissioni dell'ospedale ..." per poi affermare che, al momento del ricovero il giovane versava in una situazione "di parità di iniziali condizioni generali del paziente e di patologia in atto" rispetto allo stato in cui era stato dimesso.

Con il secondo motivo invece censurano la decisione della Corte nella parte in cui ritiene non provato il nesso di causa tra condotta omissiva e decesso, senza accogliere le ulteriori richieste istruttorie avanzate, per dimostrare soprattutto il peggioramento delle condizioni del ragazzo fra il primo ricovero, responsabile dell'omessa diagnosi del morbo di Crohn e la degenza presso la seconda struttura.

Responsabilità per omessa rilevazione delle condizioni alle prime dimissioni

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La Cassazione con l'ordinanza n. 4245/2020 accoglie i primi due motivi di ricorso, che vengono trattati congiuntamente, ritenendo assorbiti tutti gli altri.

Sulla questione relativa alla mancata riconvocazione del consulente per chiarimenti, la Corte precisa che tale potere rientra tra quelli tipici del giudice. Il provvedimento eventualmente negativo quindi non può essere oggetto di valutazione in sede di legittimità, se dalla sentenza emergono le ragioni per le quali tale indagine risulta superflua o irrilevante.

Per quanto riguarda invece il giudizio di responsabilità medica, la Cassazione rileva in effetti come la Corte del gravame, relativamente all'affermata invarianza delle condizioni di salute del giovane tra un ricovero e l'altro, si contraddica. La carenza di informazioni sull'effettivo stato di salute del giovane al momento delle prime dimissioni è incompatibile con l'affermazione successiva in base alla quale "la sua situazione non si era aggravata nel tempo intercorso tra l'inizio del primo e del secondo ricovero." L'affermazione in base alla quale i dati clinici mancanti "sarebbero stati rilevanti sul piano probatorio attesa la loro natura oggettiva e scientifica" è ovviamente in contrasto con la decisione di non concedere un supplemento di perizia, che senza dubbio, avrebbe consentito di acquisire ulteriori informazioni di rilievo ai fini del decidere.

Scarica pdf ordinanza Cassazione n. 4245/2020

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