Va condannato il condòmino che chiede la revoca dell'amministratore senza una ragione valida e insiste in giudizio per ottenerla

di Annamaria Villafrate - Con ordinanza n. 27326/2019 (sotto allegata) la Cassazione respinge il ricorso di una condòmina, già soccombente in primo e secondo grado. Il ricorso avanzato per ottenere la revoca dell'amministratore infatti non è giustificato. Gli Ermellini precisano che in sede di legittimità non è possibile procedere a un esame del merito per quanto riguarda la colpa grave o la malafede della ricorrente. Vero però che le SU hanno chiarito che va sanzionato chi abusa dello strumento processuale, a prescindere dal danno procurato alla controparte, se la sua azione è contraria al diritto vivente, alla giurisprudenza consolidata e se i motivi d'impugnazione sono infondati.

La vicenda processuale

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Una condòmina si rivolge al Tribunale affinché disponga la revoca, come previsto dagli artt. 1129, n. 11, e 1131 c.c, dell'amministratore del proprio condominio. Il tribunale però rigetta il ricorso, ma a quel punto la condomina propone reclamo, rigettato dalla Corte d'Appello, che condanna la reclamante a rimborsare alla controparte le spese del procedimento di reclamo e a pagare, la somma di 1000 euro, ai sensi dell'art. 96, 3° co. c.p.c.

La Corte sottolinea la colpa della condòmina, che ha insistito nel proporre il reclamo, anche se la pronuncia di primo grado deve considerarsi del tutto coerente alle risultanze probatorie. La donna a quel punto ricorre anche avverso il decreto della Corte d'Appello, denunciando l'assenza della malafede richiesta ai fini della condanna ai sensi dell'art 96 c.p.c e 111 Costituzione. L'amministratore deposita controricorso chiedendo la condanna di controparte ai sensi dell'art 96 c.p.c comma 3.

Precluso in Cassazione l'esame dell'aver agito con dolo o colpa grave

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La Cassazione con l'ordinanza n. 27326/2019 rigetta il ricorso della condòmina precisando però che in sede di legittimità è precluso l'esame del merito sulla questione relativa all'aver agito in giudizio in malafede o con colpa grave, come richiesto dall'art 96 c.p.c. La questione può però essere analizzata, come richiesto dalla ricorrente, sotto il profilo della ragionevolezza come previsto dal n. 5 del 10 co. dell'art. 360 c.p.c. Gli Ermellini da questo punto di vista ritengono ineccepibile il ragionamento logico giuridico seguito dalla Corte d'Appello e che ha portato alla condanna della condòmina. Erra quindi la ricorrente quando afferma che "la corte milanese avrebbe fondato la condanna ex art. 96, 3° co., cod. proc. civ. su un comportamento ipotetico e non attuale."

Domanda di revoca ingiustificata? Condanna per il condòmino

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La Corte ribadisce infine il principio sancito dalle SU n. 9912/2018 secondo cui: "la responsabilità aggravata ai sensi dell'art. 96, 3 co., cod. proc., a differenza di quella di cui ai primi due commi della medesima norma, non richiede la domanda di parte né la prova del danno, ma esige pur sempre, sul piano soggettivo, la mala fede o la colpa grave della parte soccombente, sussistente nell'ipotesi di violazione del grado minimo di diligenza che consente di avvertire facilmente l'infondatezza o l'inammissibilità della propria domanda, non essendo sufficiente la mera infondatezza, anche manifesta, delle tesi prospettate; peraltro, sia la mala fede che la colpa grave devono coinvolgere l'esercizio dell'azione processuale nel suo complesso, cosicché possa considerarsi meritevole di sanzione l'abuso dello strumento processuale in sé, anche a prescindere dal danno procurato alla controparte e da una sua richiesta, come nel caso di pretestuosità dell'azione per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, ovvero per la manifesta inconsistenza giuridica o la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione."

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