La giurisprudenza ammette la maggiorazione del compenso per la prestazione resa in periodo estivo feriale, ma l'aumento deve essere ragionevole

di Lucia Izzo - Anche gli avvocati vanno in vacanza, certo, ma molti professionisti non staccano mai del tutto dal proprio lavoro e sfruttano i mezzi di comunicazione per rimanere reperibili il caso di urgenze. Neppure le liti e i contenziosi, infatti, vanno in ferie e spesso sono gli stessi clienti a pretendere che il legale svolga il proprio lavoro anche durante il periodo di sospensione feriale.


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Sospensione feriale dei termini processuali

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In ambito processuale, un periodo di riposo o almeno di lavoro meno intenso, è garantito dalla sospensione dei termini nel periodo feriale, istituto di natura processuale che prevede che nei 31 giorni di agosto vengano sospesi i termini per il compimento di una serie di attività processuali (cfr. art. 1 della L. 742/69).


I suddetti termini iniziano poi a decorrere nuovamente dalla fine del periodo di sospensione.Qualora la decorrenza abbia inizio durante tale periodo, invece, l'inizio della stessa è differito alla fine della sospensione. In passato, i termini erano più lunghi (dall'1 al 15 agosto), ma la materia è stata modificata dall'art. 16 del del D.L. n. 132/2014 che ha ridotto il periodo a partire dal 2015.


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Tuttavia, sono diverse le attività escluse e che non ricadono né beneficiano della sospensione feriale, ovviamente l'attività stragiudiziale, i procedimenti cautelari, quelli di sfratto e molti altri. Dunque di fatto l'avvocato potrebbe trovarsi a lavorare anche ad agosto.


Ma fino a che punto il professionista può sacrificarsi per il proprio lavoro, magari in piena estate o addirittura a Ferragosto? Può, ad esempio, avanzare la richiesta di un compenso maggiorato proprio per l'attività svolta "straordinariamente" in un periodo nel quale avrebbe avuto occasione di godere delle meritate vacanze? La risposta, offerta dall'interpretazione giurisprudenziale in materia di tariffe forensi, sembra essere positiva.

Avvocato: sì al compenso maggiorato per il lavoro d'estate

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Ne sa qualcosa l'avvocatessa chiamata a svolgere l'attività di rappresentanza e assistenza in una procedura per rilascio di immobile acquistato all'asta giudiziaria in pieno agosto. I clienti avevano avevano particolare urgenza di liberare il bene, al punto che l'ultimo accesso era stato fissato il 18 agosto.

La professionista aveva dunque dovuto modificare i propri programmi di ferie per redigere il precetto e svolgere l'attività necessaria, ma aveva espressamente avvisato i clienti ciò avrebbe inciso sul suo compenso.

Della vicenda se ne è occupato il Tribunale di Roma (sent. n. 11382/2016) poiché l'avvocatessa aveva sì conteggiato la somma prevista per la redazione del precetto, ma anche l'importo massimo previsto per l'assistenza alla procedura esecutiva, quadruplicando il totale in applicazione dell'art. 5, comma 3, della tariffa applicabile (D.M. n° 127/04).

Secondo i giudici capitolini, la circostanza che l'attività sia stata prestata in periodo feriale può incidere sul compenso, anche in quanto sintomo di urgenza; tuttavia la somma richiesta dalla professionista è apparsa manifestamente esorbitante e dunque il Tribunale ha provveduto a rideterminare l'onorario base applicando un ragionevole aumento per l'urgenza e la prestazione resa in periodo estivo feriale.

Compenso avvocati: si può chiedere una somma maggiore a quella liquidata in sentenza?

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La Corte di Cassazione (cfr. ord. n. 25992/2018) ha addirittura sottolineato come la misura degli oneri dovuti dal cliente al proprio avvocato prescinde dalle statuizioni del giudice contenute nella sentenza che condanna la controparte alle spese ed agli onorari di causa. L'importo, dunque, deve essere determinato in base a criteri diversi da quelli che regolano la liquidazione delle spese tra le parti (quali, tra gli altri, il risultato ed altri vantaggi anche non patrimoniali).


Il cliente, quindi, è sempre obbligato a corrispondere gli onorari e i diritti all'avvocato e al procuratore da lui nominati e il relativo ammontare deve essere determinato dal giudice nei suoi specifici confronti a seguito di procedimento monitorio o dal procedimento previsto dagli artt. 28 e 29 della legge n. 794/1942, ma senza essere vincolato alla pronuncia sulle spese da parte del giudice che ha definito la causa cui le stesse si riferiscono.


Pertanto, la misura degli onorari dovuti dal cliente al proprio avvocato prescinde dalla liquidazione contenuta nella sentenza, che condanna l'altra parte al pagamento delle spese e degli onorari di causa, per cui solo l'inequivoca rinuncia del legale al maggiore compenso può impedirgli di pretendere onorari maggiori e diversi da quelli liquidati in sentenza.

Tale rinuncia non può essere desunta dalla mera accettazione della somma corrisposta dal cliente per spese, diritti ed onorari, nella misura liquidata in sentenza e posta a carico dell'altra parte, quando non risulti in concreto che la somma è stata accettata a saldo di ogni credito per tale titolo. Tale principio va confermato anche dopo l'entrata in vigore della nuova legge professionale forense n. 247 del 2013.


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