Gli Ermellini confermano la condanna per diffamazione, stalking e lesione della privacy per l'ex che ha diffuso in rete video hot della fidanzata descrivendola disposta a incontri sessuali

di Lucia Izzo - In attesa della definitiva approvazione del d.d.l. "Codice rosso", che dopo l'ok in Commissione si appresta a diventare legge con il voto dell'aula del Senato, la Corte di Cassazione anticipa la tutela nei confronti delle vittime del c.d. "revenge porn", la vendetta porno che corre sul web e coinvolge in particolar modo le donne.


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Revenge Porn: la Cassazione anticipa la tutela delle vittime

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Secondo gli Ermellini nei confronti dell'ex che, per vendetta, carica in rete i video hot della fidanzata, scatta la condanna per stalking, diffamazione e lesione della privacy: da un lato trattasi di un atto persecutorio in quanto la donna riceve proposte indecenti dagli utenti, dall'altro viene divulgata una falsa immagine della stessa che viene presentata come disponibile a rapporti sessuali, infine sono pubblicati momenti che appartengono e devono restare nella sua sfera più intima.


Anzi, è ben possibile il concorso tra il reato di cui all'art. 595 c.p. e il trattamento illecito di dati personali di cui all'art. 167 del Codice Privacy, come modificato a seguito dell'entrata in vigore del GDPR: le norme, infatti, proteggono beni giuridici distinti.


La Suprema Corte, nella sentenza n. 30455/2019 (qui sotto allegata), non risparmia l'ex fidanzato che si è macchiato di plurimi reati con il suo ignobili gesto, al punto che i giudici di merito hanno deciso di condannarlo per diffamazione aggravata, atti persecutori e trattamento illecito di dati personali in danno della fidanzata.


In particolare, dopo la fine della relazione, l'imputato aveva divulgato su internet video della donna in atteggiamenti strettamente attinenti all'intimità della propria vita privata. Nonostante le rimostranze dell'uomo in sede di legittimità, la quinta sezione penale ritiene di dover confermare la condanna.

Cosa rischia chi pubblica video hot dell'ex in rete?

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L'argomentazione della Corte d'Appello è ritenuta solida nella parte in cui ritiene gravi, precisi e concordanti gli indizi raccolti sul conto dell'imputato, tali da far ritenere che nessuno, salvo l'imputato stesso, potesse aver inserito nel portale telematico video realizzati montando le fotografie della ex delle quali solo lui era in possesso.

Tale agire trovava spiegazione nel risentimento e nel rancore nutrito nei confronti della fidanzata per la fine della loro relazione sentimentale e, quindi, nell'interesse ritorsivo a screditarla non solo nell'ambiente di lavoro (dove l'uomo aveva diffuso bigliettini con epiteti denigratori della donna), ma anche agli occhi della vasta platea degli utenti del "web", e a crearle una situazione di turbamento esistenziale scaturente dall'essere additata, e addirittura ricercata, come persona disponibile ad incontri sessuali con sconosciuti.

Non colgono nel segno le censure che contestano la valenza persecutoria delle condotte: la sentenza impugnata, infatti, ha ben evidenziato come la destabilizzazione psico-esistenziale vissuta dalla donna sia stata l'effetto di un'articolata manovra screditante realizzata dal suo ex compagno, non solo attraverso i sette video postati in rete, che esponevano la persona offesa alle imbarazzanti proposte di incontri equivoci da parte di sconosciuti, ma anche attraverso la diffusione nel luogo di lavoro di bigliettini atti a vulnerare il suo profilo morale.

Concorso tra diffamazione e trattamento illecito di dati personali

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Neppure coglie nel segno il rilievo della difesa che ritiene non configurabile alcun concorso tra il delitto di diffamazione e quello di trattamento illecito di dati personali: la censura non tiene conto del principio di diritto secondo il quale, in presenza della clausola di riserva "salvo che il fatto costituisca più grave reato", la maggiore o minore gravità dei reati concorrenti presuppone che entrambi siano posti a tutela dello stesso bene giuridico (cfr. Cass., n. 25363/2015).

Nelle fattispecie ex artt. 595 c.p. e 167 del d.lgs. n. 196/2003 (come aggiornato dal d.lgs 101/2018) l'interesse giuridico protetto non è affatto sovrapponibile.

Nel delitto di diffamazione, il bene giuridico si identifica nella reputazione, che coincide con la considerazione, in relazione al sentire del momento storico, di cui la persona gode nell'ambiente sociale e attiene, quindi, all'aspetto esteriore dell'individuo, che ha diritto a godere, appunto, di un certo riconoscimento sociale.

Nel delitto di trattamento illecito di dati personali, invece, il bene giuridico si identifica nella riservatezza, che coincide con il diritto dell'individuo a preservare la propria sfera personale dalle attenzioni di quanti non abbiano titolo per ingerirsi in essa e attiene, quindi, all'aspetto interiore dell'individuo, che ha diritto a proteggersi dalle indiscrezioni altrui.

Nel caso di specie, tale rilievo consente di negare la sovrapponibilità, dal punto di vista materiale, del pregiudizio scaturente dalla diffamazione, coincidente, nel caso concreto, con la divulgazione di un'immagine falsa della donna, fatta apparire come persona disponibile a intrattenere rapporti promiscui e mercenari, al "nocumento" quale conseguenza dell'illecito trattamento di dati personali, coincidente, nell'ipotesi al vaglio, con il detrimento subito dalla stessa nel vedere "esposti" sul web comportamenti attinenti alla sua più stretta intimità.


Scarica pdf Cass., V pen., sent. n. 30455/2019

Foto: 123rf.com
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