Secondo il Ministero del lavoro, una presenza effettiva nella sede di lavoro pari a 5 ore e 12 minuti al giorno non dà diritto alla pausa pranzo

di Lucia Izzo - Non spettano le pause pranzo e, dunque neppure i buoni pasto, alle lavoratrici in allattamento che godono dei relativi riposi giornalieri e lavorano meno di sei ore al giorno. Lo ha precisato il Ministero del Lavoro nell'interpello n. 2/2019 (qui sotto allegato) rispondendo al quesito posta dall'Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale (Ispra).


Il quesito

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Nel dettaglio, l'Istituto si era soffermato sul diritto alla pausa pranzo e alla conseguente attribuzione del buono pasto, ovvero alla fruizione del servizio mensa, da parte delle lavoratrici che usufruiscono dei riposi giornalieri "per allattamento" di cui all'art.39 del d.lgs. n. 151/2001 e successive modificazioni.


Tale norma stabilisce il diritto della lavoratrice, durante il primo anno di vita del figlio, a due periodi di riposo di un'ora ciascuno, anche cumulabili durante la giornata, quando l'orario lavorativo è superiore alle sei ore. Nel caso di orario giornaliero inferiore a sei ore, la disposizione prevede invece una sola ora di riposo. Come chiarito dal comma 2 dello stesso articolo 39, detti riposi devono essere "considerati ore lavorative agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro".


L'ISPRA chiede dunque se, in caso di una presenza nella sede di lavoro pari a 5 ore e 12 minuti, dovuta alla fruizione, da parte della lavoratrice, dei riposi giornalieri, si debba procedere a decurtare i 30 minuti della pausa pranzo, come se avesse effettivamente completato l'intero orario giornaliero, atteso che i riposi in questione sono considerati dalla legge ore lavorative agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro. Per altro verso, si chiede altresì di conoscere se la dipendente abbia la facoltà di rinunciare alla pausa pranzo e/o al buono pasto, al fine di non vedere decurtate le ore considerate come lavoro effettivo.

Il regime delle pause lavorative

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Il Ministero, in via preliminare, si sofferma sul regime delle pause lavorative evidenziando che, ai sensi dell'art. 8 del d.lgs. n. 66/2003, qualora l'orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di sei ore il lavoratore dovrà beneficiare di un intervallo per pausa, le cui modalità e la cui durata sono stabilite dai contratti collettivi di lavoro, ai fini del recupero delle energie psico-fisiche e della eventuale consumazione del pasto anche al fine di attenuare il lavoro monotono e ripetitivo.


La ratio è quella di consentire al lavoratore che effettui una prestazione lavorativa superiore a sei ore di recuperare le proprie energie psicofisiche durante un lasso temporale (intervallo), prestabilito dalla contrattazione collettiva. La scelta stessa del termine "intervallo" da parte del legislatore del 2003 lascia presupporre da un punto di vista logico, si legge nel provvedimento, la successiva ripresa dell'attività lavorativa dopo la consumazione del pasto o la fruizione della pausa da parte del lavoratore.


Il Ministero ritiene che le due disposizioni richiamate (art. 8 del d.lgs. n. 66/2003 e art. 39 del d.lgs. n. 151/2001) siano state concepite dal legislatore con scopi ben distinti.


L'art. 39 punta a favorire la conciliazione tra la vita professionale e quella familiare, stabilendo nei confronti della lavoratrice madre il diritto ad una o due ore di riposo giornaliero (a seconda della durata della giornata lavorativa) per accudire il figlio, entro il primo anno di età. La norma non specifica la collocazione temporale dei riposi, limitandosi a stabilire che, qualora siano due, essi possano anche essere cumulati.


Invece, l'art. 8 è relativo, più in generale, all'organizzazione dell'orario di lavoro e stabilisce il diritto del lavoratore a una pausa, finalizzata al recupero delle energie e all'eventuale consumazione del pasto.

Lavoratrici in allattamento: niente pausa pranzo se si lavora meno di 6 ore al giorno

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Il Ministero ritiene che il dettato normativo e la ratio della disposizione non lascino dubbi in merito al riferimento adun'attività lavorativa effettivamente prestata, ben diversa dalla fattispecie in esame in cui il legislatore, volendo comprensibilmente riconoscere un favor alla lavoratrice madre, abbia inteso riconoscere le ore di permesso ai fini retributivi e del rispetto dell'orario (normale) di lavoro.


Ciò premesso, un'analisi coordinata delle due disposizioni richiamate, considerata la specifica funzione della pausa pranzo, che la legge definisce come "intervallo", porta ad escludere che una presenza effettiva della lavoratrice nella sede di lavoro pari a 5 ore e 12 minuti dia diritto alla pausa ai sensi dell'articolo 8 del d.lgs. n. 66/2003.


Conseguentemente, non si dovrà procedere alla decurtazione dei 30 minuti della pausa pranzo dal totale delle ore effettivamente lavorate dalla lavoratrice.


Il parere recepisce, peraltro, le indicazioni del Dipartimento della Funzione Pubblica che, con nota del 10 ottobre 2012 (n. 40527), aveva già fornito risposta all'ISTAT e all'ARAN evidenziando che "il diritto al buono pasto sorge per il dipendente solo nell'ipotesi di attività lavorativa effettiva dopo la pausa stessa".


Da ultimo, il Ministero fa presente che ad analoghe conclusioni è giunta anche l'Agenzia delle Entrate che ha fornito, in data 21 gennaio 2013, istruzioni ai fini della concessione del buono pasto ai propri dipendenti, individuando come presupposti imprescindibili l'effettuazione della pausa e la prosecuzione dell'attività lavorativa dopo la stessa.


Scarica pdf Ministero del Lavoro, Interpello 2/2019

Foto: 123rf.com
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