Per la Cassazione il giudice d'appello che riforma la sentenza di condanna o di assoluzione di primo grado deve motivare in maniera rafforzata con rigorosa e penetrante analisi critica

di Lucia Izzo - Va annullata la sentenza del giudice di merito che, riformando l'assoluzione pronunciata in primo grado, condanna (seppur ai soli effetti civili) il medico curante accusato della morte della paziente per infezione polmonare di cui, tuttavia, il dottore non era stato in grado di avere contezza durante la visita domiciliare, neppure riscontrata dai sanitari della clinica dove la persona offesa era stata ricoverata alcuni giorni dopo.


Il giudice di seconde cure, infatti, avrebbe dovuto adottare una motivazione rafforzata nel riformare la sentenza di primo grado che aveva adeguatamente spiegato perché il dottore non dovesse ritenersi responsabile, supportando i propri argomenti con dati probatori specificamente indicati.


Lo ha deciso la Corte di Cassazione, quarta sezione penale, nella sentenza n. 29083/2018 (qui sotto allegata) pronunciandosi sull'impugnazione del provvedimento con cui la Corte d'Appello, in parziale riforma della sentenza del Tribunale (che aveva assolto l'imputato), aveva dichiarato la responsabilità ai soli effetti civili del prevenuto a cui era stato contestato il reato di omicidio colposo.


All'imputato, medico curante della paziente deceduta, si era contestato di aver colposamente omesso nei confronti di quest'ultima di adottare le tecniche diagnostiche necessarie per individuare la patologia in atto.


Secondo la Corte territoriale, se il medico avesse somministrato per tempo alla paziente (che lamentava rialzo febbrile e dolore alla schiena) una terapia antibiotica ad ampio spettro, sottoponendola nel frattempo ad accertamenti strumentali ed ematici, avrebbe quantomeno rallentato sensibilmente il progredire della sepsi, consentendo la diagnosi dell'infezione polmonare e l'individuazione dell'antibiotico specifico idoneo alla definitiva guarigione.


Il difensore dell'imputato, tuttavia, sostiene che le prove acquisite, contrariamente a quanto ritenuto nella

sentenza di appello, non consentono di affermare che l'imputato fosse stato posto a conoscenza di sintomi che dovevano indurlo a sottoporre la paziente alla terapia antibiotica e agli accertamenti menzionati che non gli erano stati riferiti né in occasione della visita domiciliare né successivamente.


Neppure nella clinica dove la signora era stata ricoverata i sanitari si erano resi conti dell'infezione polmonare visto che avevano indirizzato la paziente al ricovero nel reparto di ortopedia. Pertanto, la difesa ritiene che nessun addebito potrebbe essere mosso nei confronti dell'imputato.

Cassazione: serve una motivazione rafforzata per riformare la sentenza assolutoria

Per i giudici di Cassazione, in effetti, colgono nel segno le doglianze del ricorrente laddove evidenziano che l'impugnata sentenza, che ha riformato la sentenza assolutoria in primo grado in una condanna (sia pure ai soli effetti civili) non ha rispettato l'onere motivazionale di supportare la decisione con un corredo argomentativo rispettoso dei principi in tema di motivazione rafforzata.

Sul punto, gli Ermellini richiamano il consolidato principio secondo cui la decisione del giudice di appello, che "comporti totale riforma della sentenza di primo grado, impone la dimostrazione dell'incompletezza o della non correttezza ovvero dell'incoerenza delle relative argomentazioni, con rigorosa e penetrante analisi critica seguita da completa e convincente dimostrazione che, sovrapponendosi in toto a quella del primo giudice, dia ragione delle scelte operate e del privilegio accordato ad elementi di prova diversi o diversamente valutati".


Inoltre, il giudice del gravame, allorché prospetti ipotesi ricostruttive del fatto alternative a quelle ritenute dal giudice di prima istanza, non può limitarsi a formulare una mera possibilità, come esercitazione astratta del ragionamento, disancorata dalla realtà processuale, ma deve riferirsi a concreti elementi processualmente acquisiti, posti a fondamento di un iter logico che conduca, senza affermazioni apodittiche, a soluzioni divergenti da quelle prospettate da altro giudice di merito.


Sul punto, è stato elaborato il concetto di "motivazione rafforzata" per esprimere il più intenso obbligo di diligenza richiesto al giudice di secondo grado, sia nel caso di pronuncia di condanna in seguito ad assoluzione pronunciata dal primo giudice, sia nel caso di pronuncia di assoluzione a seguito di precedente sentenza di condanna


Si tratta di giurisprudenza che è andata successivamente sviluppandosi alla luce della lettura della innovazione introdotta nel 2006 on la modifica dell'art. 533 c.p.p. e l'introduzione del canone dell' "al di là di ogni ragionevole dubbio".

Niente condanna al medico curante non messo in grado di effettuare una diagnosi adeguata

Nel caso di specie, il Tribunale aveva ampiamente motivato e concluso che, all'atto della visita, il medico non aveva potuto avere contezza né della febbre, né di problemi respiratori o urinari della paziente, ma solo dei dolori lombari.


Pertanto, a giudizio del primo giudice, l'imputato non era stato in condizione di poter effettuare una diagnosi differenziale adeguata e prendere atto della possibile insorgenza di un'infezione batterica. E comunque, una volta appreso del progressivo decadimento delle condizioni generali della paziente, il medico di base aveva tempestivamente prescritto il ricovero ospedaliero della stessa, avvenuto poi solo il giorno dopo per ragioni non certamente imputabili al prevenuto.


La sentenza appellata, secondo la Cassazione, ha ribaltato il giudizio motivando in maniera carente e apodittica, muovendo all'imputato un addebito omissivo senza spiega sulla base di quali elementi, secondo una corretta valutazione ex ante (e non ex post), il medico avrebbe dovuto avere contezza, all'atto della visita, della (possibile) infezione batterica in atto nella paziente, non riscontrata neanche dai sanitari della clinica ove la persona offesa era stata pochi giorni dopo ricoverata.


Sul punto, invece, ha adeguatamente e approfonditamente motivato la sentenza del Tribunale che ha spiegato, con dovizia di argomenti, supportati da dati probatori specificamente indicati, che il medico curante, sulla base degli elementi acquisiti durante la visita della paziente, non era stato posto nella condizione di svolgere una diagnosi differenziale.


In definitiva, la Corte distrettuale non ha adempiuto all'onere di confutare specificamente gli argomenti della prima sentenza, non avendo dato adeguatamente conto delle ragioni di relativa incompletezza o incoerenza di quel decisum, tali da giustificarne la riforma in condanna (sia pure ai soli effetti civili).


Non essendo stata accertata la responsabilità del medico "al di là di ogni ragionevole dubbio", la sentenza va dunque annullata agli effetti civili, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado d'appello.

Cass., IV pen., sent. n. 29083/2018

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