Per la Cassazione tale elemento, unito ad altri comportamenti persecutori, può servire per sancire il diritto del lavoratore al risarcimento del danno

di Valeria Zeppilli - Anche l'esercizio abusivo del potere disciplinare da parte del datore di lavoro, posto in essere con il fine di estromettere il dipendente dell'azienda, è un comportamento che può contribuire a realizzare un'ipotesi di mobbing.

Ad averlo recentemente affermato è stata la Corte di cassazione nella sentenza numero 30606/2017 (qui sotto allegata), che ha rigettato il ricorso presentato da un datore di lavoro rispetto alla sentenza della Corte d'appello che lo aveva condannato, anche per tale ragione, a risarcire i danni da mobbing al proprio dipendente.

I comportamenti vessatori dell'azienda

La condanna, in realtà, era derivata da una molteplicità di fattori che, nonostante i diversi aspetti contestati dall'azienda, hanno indotto i giudici di legittimità a confermare la posizione già assunta dai giudici del merito.

In particolare, oltre ad essere stato vittima di un abusivo esercizio del potere disciplinare da parte del datore di lavoro, il dipendente era stato spostato di reparto senza alcuna giustificazione e con pregiudizio patrimoniale, era stato emarginato con isolamento nell'ambito del lavoro ed era stato indotto a rassegnare le dimissioni da un intento evidentemente persecutorio dell'azienda. Non solo: in corso di causa era stato dimostrato anche che il motivo alla base del mutamento di atteggiamento nei suoi confronti da parte della società coincideva con la scelta del lavoratore di rivolgersi a un'organizzazione sindacale per la tutela dei propri interessi.

Posti tutti tali elementi e considerata l'incensurabilità della decisione della Corte d'appello (che peraltro si era attenuta nell'esame della fattispecie ai parametri normativi elaborati in tema di mobbing dalla giurisprudenza di legittimità) la condanna del datore di lavoro non ha potuto che essere confermata.

Leggi anche: "Mobbing: il risarcimento in quattro punti"

Corte di cassazione testo sentenza numero 30606/2017
Valeria Zeppilli

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