Dalla sentenza che salva la riforma sulla responsabilità dei magistrati al giudicato nell'ambito delle sanzioni amministrative, la 2° puntata della rubrica di diritto costituzionale

Avv. Luisa Foti - Tra le principali e recenti sentenze emesse dalla Corte Costituzionale, spicca il pronunciamento sull'ordinanza con la quale il Tribunale di Como, in un giudizio in via incidentale, avrebbe voluto far valere l'applicabilità dell'art. 30 della legge sul funzionamento della Corte costituzionale, anche alle sanzioni amministrative, ossia la rimozione del giudicato in caso di dichiarazione di incostituzionalità delle sanzioni amministrative ma "sostanzialmente" penali. La Corte ha negato la pronuncia additiva di costituzionalità, respingendo, con le motivazioni che leggerete di seguito, l'impostazione del giudice di Como.

Oltre ad alcune sentenze in materia di immigrazione e in materia penale, sulla particolare tenuità del fatto (rispettivamente, Corte Cost. nn. 45 e 46), ci soffermeremo sulla sentenza n. 43, data la particolare importanza per il principio di legalità in materia penale nel nostro e nell'ordinamento Cedu e il concetto di giudicato.

Sono state poi emesse sentenze di manifesta inammissibilità (ordinanza n. 58/2017 sull'art. 21-octies, l. 241/90) e di improcedibilità sul conflitto di attribuzioni sollevato dal tribunale di Roma, in materia di autodichia. Nel pronunciamento, la Corte ha dichiarato ammissibile sotto il profilo oggettivo e soggettivo il conflitto, in relazione alle deliberazioni degli artt. 1 a 6-bis del regolamento per la tutela giurisdizionale del dipendenti del 28 aprile 1988, in relazione agli artt. 3, co.1, 24, co.1, 102, co. 2, 108 e 111 Cost, ma ha dovuto rigettarlo per la violazione delle norme sul procedimento (art. 24, comma 3, norme integrative per i giudizi davanti alla Corte). Il Tribunale di Roma aveva sollevato il conflitto in quanto quelle norme precludono l'accesso alla tutela giurisdizionale in riferimento alle controversie di lavoro insorte con la Camera dei deputati, in virtù dell'autodichia.

Tra le altre sentenze degne di nota troviamo, infine, in tema di indennità di disoccupazione per i lavoratori agricoli, la sentenza n. 53/2017, una sentenze interpretativa di rigetto: la Corte, dopo aver spiegato che il giudice sarebbe potuto arrivare a tale conclusione attraverso un'interpretazione conforme a Costituzione, ha dichiarato la questione non fondata "nei sensi di cui in motivazione", invitando il giudice a quo ad interpretare in modo che l'indennità di disoccupazione non sia esclusa per i lavoratori agricoli.

Ieri è stata emessa, altresì, la sentenza sulla responsabilità civile dei magistrati: la Consulta si è espressa sulle q.l.c. sollevate da vari tribunali e le motivazioni verranno depositate nei prossimi giorni. Da ciò che emerge dal comunicato stampa della Corte, le questioni sono state respinte e ritenute inammissibili.

Infine, si dà conto delle principali questioni che saranno sottoposte all'attenzione della Corte nel mese di aprile.

La sentenza n. 43/2017 sulla rimozione del giudicato in caso di dichiarazione d'incostituzionalità delle sanzioni amministrative "sostanzialmente" penali

In tema di rimozione del giudicato per le sanzioni amministrative ma "sostanzialmente penali" in base ai criteri elaborati dalla Cedu (cd. "criteri Engels"), il giudice delle leggi ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Como con l'ordinanza n. 106/2015, sull'art. 30 della legge n. 53/1987, nella parte in cui non prevede la propria applicabilità - ossia la rimozione del giudicato in caso di dichiarazione di incostituzionalità delle norme penali - alle sentenze irrevocabili con le quali è stata inflitta una sanzione amministrativa qualificabile come "penale" ai sensi del diritto convenzionale.

Secondo il giudice rimettente la non applicabilità dell'art. 30 suddetto anche alle sanzioni di questa tipologia, avrebbe determinato la violazione dell'art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 6 e 7 della CEDU (oltre che degli artt. 25, secondo comma, e 3 Cost.).

La Corte, però, rigettando la questione con l'attesa sentenza n. 43/2007, ha spiegato che in questa materia opererebbe il principio di stretta legalità e cioè che nessuno possa essere assoggettato a sanzione amministrativa se non in forza di una legge entrata in vigore prima della commissione dell'illecito ma non dispone poi il principio "diverso" dell'applicazione retroattiva della legge successiva più favorevole all'autore della violazione, cosa che, invece avviene per le sanzioni penali. (ex art. 2, co. 2, c.p. e art. 3 Cost., principio dell'applicazione della legge mitior in virtù del il principio del favor rei). Non può dunque estendersi, in virtù di questa interpretazione, l'applicazione dell'art. 30 suindicato anche alle suddette sanzioni amministrative.

Nella parte motiva della sentenza, la Consulta ha spiegato che "nella giurisprudenza europea non si rinviene, allo stato, alcuna affermazione che esplicitamente o implicitamente possa avvalorare l'interpretazione dell'art. 7 Cedu nel significato elaborato dal giudice rimettente, tale da esigere che gli Stati aderenti sacrifichino il principio dell'intangibilità del giudicato nel caso di sanzioni amministrative inflitte sulla base di norme successivamente dichiarate costituzionalmente illegittime".

La Corte ha spiegato che non può applicarsi questo principio perché "ciò che per la giurisprudenza europea ha natura "penale" deve essere assistito dalle garanzie che la stessa ha elaborato per la "materia penale"; mentre solo ciò che è penale per l'ordinamento nazionale beneficia degli ulteriori presídi rinvenibili nella legislazione interna" in quanto "dalla giurisprudenza Cedu non si evince, allo stato, una tale affermazione" (…) "il concetto di base legale convenzionale, definito dalla Corte di Strasburgo in maniera autonoma rispetto agli ordinamenti degli Stati aderenti, è stato infatti perlopiù inteso in riferimento ai requisiti di accessibilità e prevedibilità che devono connotare il diritto penale".

Il giudice rimettente invece mirava a far valere la pronuncia di incostituzionalità di tipo additivo e cioè dichiarare l'art. 30 l. 53/1987 nella parte in cui non si estende anche alle sanzioni amministrative sostanzialmente penali.

La vicenda

L'oggetto della questione di costituzionalità sono le sanzioni amministrative previste dall'art. 18-bis, comma 4, del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, in base alle quali la violazione, da parte del datore di lavoro, della durata dell'orario di lavoro e dei riposi giornalieri e settimanali dei dipendenti, "è punita con la sanzione amministrativa da 105 a 630 euro.

Tale disposizione (art. 18-bis) è stata, però, dichiarata costituzionalmente illegittima, per eccesso di delega, con sentenza n. 153 del 2014.

Si pone dunque il problema, secondo il giudice a quo, dell'applicabilità dell'art. 30 più volte citato anche a queste sanzioni amministrative ma sostanzialmente penali/afflittive.

Il Tribunale di Como aveva optato per la natura penale della sanzione in considerazione dell'elevato ammontare della sanzione amministrativa in questione (nel caso di specie, circa 177.000 euro, in ragione del numero di giornate di violazione) e della conseguente afflittività della stessa, nonché della finalità che essa persegue, non meramente risarcitoria, ma preventiva e repressiva del fenomeno dello sfruttamento del lavoro. Alla luce di queste caratteristiche e guardando ai criteri Engels elaborati dalla giurisprudenza Cedu per definire come penali le sanzioni, tali sanzioni dovrebbero considerarsi penali e, dunque, l'art. 30 dovrebbe estendersi anche a questa tipologia di sanzioni. Il giudice rimettente mirava quindi ad una sentenza additiva, con una declaratoria di incostituzionalità dell'art. 30 nella parte in cui non si applica a tali sanzioni.

La decisione

Rigettando l'impostazione del Tribunale di Como, la Corte ha precisato che "l'attrazione di una sanzione amministrativa nell'ambito della materia penale in virtù dei criteri Engels, trascina con sé tutte e soltanto le garanzie previste dalle disposizioni della Convenzione, come elaborate dalla Corte di Strasburgo. Rimane, invece, nel margine di apprezzamento di cui gode ciascuno Stato aderente la definizione dell'ambito di applicazione delle ulteriori tutele predisposte dal diritto nazionale, in sé e per sé valevoli per i soli precetti e le sole sanzioni che l'ordinamento interno considera espressione della potestà punitiva dello Stato, secondo i propri criteri. Ciò, del resto, corrisponde alla natura della Convenzione europea e del sistema di garanzie da essa approntato, volto a garantire una soglia minima di tutela comune, in funzione sussidiaria rispetto alle garanzie assicurate dalle Costituzioni nazionali".

Una volta venuta meno questa impostazione viene meno anche l'impalcatura che il giudice a quo aveva doviziosamente creato al fine di far valere anche l'illegittimità costituzionale della dell'art. 18-bis, comma 4, d.lgs. 66/2003 in relazione anche agli altri parametri costituzionali "interni": in relazione agli artt. 3, primo comma e 25, comma 1: "in tale contesto di coesistenza, e non di assimilazione, - ha spiegato la Corte in chiusura - tra le garanzie interne e quelle convenzionali, si pone dunque la peculiare tutela di cui all'art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953, e la sua applicazione alle sole ipotesi di sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalità di norme penali, e non anche di norme amministrative": (…) "la qualificazione degli illeciti e la conseguente sfera delle garanzie, circoscritta ad alcuni settori dell'ordinamento ed esclusa per altri, risponde, dunque, a «scelte di politica legislativa in ordine all'efficacia dissuasiva della sanzione, modulate in funzione della natura degli interessi tutelati» (sentenza n. 193 del 2016), sindacabili da questa Corte solo laddove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell'arbitrio".

La sentenza n. 45/2017 sull'unitarietà del procedimento di emersione del lavoro irregolare e del rilascio del permesso di soggiorno

In tema di rilascio del pds per motivi di lavoro subordinato, in seguito alla conclusione positiva del procedimento di rilascio del nulla osta per l'emersione del lavoro irregolare, con la sentenza n. 45 la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile il ricorso con il quale il giudice aveva sospettato della legittimità costituzionale del combinato disposto dagli artt. 4, comma 3 e 5, comma 5, con l'art. 3 Cost. nella parte in cui non consente alla pubblica amministrazione di rilasciare il permesso di soggiorno al cittadino extracomunitario che abbia ottenuto la regolarizzazione della propria posizione lavorativa irregolare, (ai sensi, dell'art. 1-ter del decreto-legge 1 luglio 2009, n. 78), previo accertamento della pericolosità sociale dello stesso, qualora abbia riportato condanna per uno dei reati indicati dal citato art. 4, comma 3 e cioè quelli previsti dall'art. 381 del codice di procedura penale. Secondo la Corte, il giudice, nonostante la corretta premessa, è arrivato a conclusioni contraddittorie e, nonostante l'asserita presenza di un diritto vivente contrario, avrebbe dovuto/potuto dare un'interpretazione conforme a Costituzione, seguendo, peraltro, un altro filone della giurisprudenza amministrativa.

Il mancato esperimento del tentativo di interpretazione conforme, pur essendo stato individuato, ha dato luogo ad una sentenza di inammissibilità per difetto sulla rilevanza.

La vicenda

Un cittadino extracomunitario aveva presentato allo Sportello Unico Immigrazione domanda di regolarizzazione del rapporto di lavoro, ex art. 1-ter del d.l. 78/2009.

Dopo che la procedura di emersione del lavoro si era conclusa con esito positivo ed era stato emesso il richiesto nulla osta, il questore di Torino rigettava la richiesta di permesso di soggiorno per lavoro subordinato in quanto il richiedente aveva riportato una condanna per uno dei reati di cui al d.p.r. 309 del 1990. In base al provvedimento del Questore, questa condanna sarebbe stata "assorbente" del giudizio di pericolosità sociale. Il reato di cui si era reso responsabile il cittadino extracomunitario rientra tra quelli espressamente richiamati dall'art. 4 t.u.i. e cioè quelli ostativi all'ottenimento del permesso di soggiorno.

In seguito alla richiesta di annullamento di detto provvedimento davanti al Tar, in cui veniva censurata, soprattutto, la mancata valutazione in concreto della pericolosità sociale, il Tar Piemonte eccepiva la illegittimità costituzionale del combinato disposto citato, in quanto prima di procedere formalmente a rigettare la sua domanda, la questura avrebbe dovuto valutare in concreto la pericolosità sociale del richiedente senza basarsi su di una presunzione rappresentata dalla commissione di un reato.

Secondo il Tar Piemonte "non sarebbe, infatti, ragionevole che il cittadino extracomunitario, il quale abbia riportato condanna per un reato riconducibile all'art. 381 cod.proc.pen., da un canto, può «ottenere (per il passato) il nulla osta all'emersione dal lavoro irregolare», poiché, in virtù della sentenza n. 172 del 2012 Corte Cost., il rigetto dell'istanza di regolarizzazione è condizionato all'accertamento che il medesimo rappresenta una minaccia per l'ordine pubblico o la sicurezza dello Stato. Dall'altro, egli non potrebbe invece ottenere «(per il futuro)» il permesso di soggiorno, a causa dell'automatismo espulsivo stabilito dalle norme censurate, ritenuto non irragionevole dalla sentenza n. 148 del 2008. Secondo il giudice a quo, sussisterebbe dunque «una irragionevolezza intrinseca di sistema», dato che il procedimento di emersione del lavoro irregolare ex art. 1-ter, comma 7, del d.l. n. 78 del 2009 «è sostanzialmente unitario ed unitaria ne è la ratio».

Inoltre, il giudice a quo dava conto dell'impossibilità di una interpretazione conforme in quanto impedita dal diritto vivente.

La presunzione assoluta di pericolosità sociale desunta dalla condanna per uno dei reati indicati nel citato art. 4, comma 3, applicata alla fattispecie di emersione del lavoro irregolare, sarebbe stata inoltre irragionevole, arbitraria e lesiva dell'art. 3 Cost., secondo il Tar Piemonte.

La decisione

La Corte, "bacchettando" il Tar Piemonte, ha precisato che il giudice a quo avrebbe dovuto tentare un'interpretazione conforme e che, pur partendo da giuste premesse è poi caduto in contraddizione: "la premessa dell'ordinanza - ha spiegato la Corte dichiarando inammissibile la questione con sentenza - in ordine alla riconducibilità del reato ritenuto ostativo a tale permesso tra quelle contemplati dall'art. 381 c.p.p. ed all'applicabilità di detta norma, nel testo dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale pronunciata dalla sentenza n. 172 del 2012 è corretta. Il sopravvenuto accertamento della incostituzionalità parziale della norma costituisce, infatti, un profilo invalidante dell'atto che, alla data della sentenza, era ancora sub iudice. Nondimeno, proprio la correttezza di tale premessa evidenzia carenze e contraddizioni della motivazione della sollevata questione".

In sostanza, il Tar, dopo aver ben ricostruito la vicenda non ha approfondito gli effetti di tale configurazione: una volta ritenuti sussistenti i requisiti per procedere all'emersione, non si sarebbe potuto negare il permesso di soggiorno.

La Corte ha spiegato che con riguardo alla disciplina dell'emersione del lavoro irregolare ex art. 5 del d.lgs. 109/2012 (alla quale è possibile fare riferimento in considerazione della sostanziale identità della regolamentazione stabilita questa norma e dal più volte citato art. 1-ter) un orientamento della giurisprudenza amministrativa ha ritenuto che il procedimento di emersione è comunque unico ed è regolamentato dalla disciplina speciale (vedi Tar Torino sez. I, sentenza 612/2014).

"Secondo questo indirizzo, «la disciplina dell'emersione - ha precisato la Corte, citando alcune sentenze Tar - fissa in via autonoma le condizioni di accesso alla procedura di sanatoria per emersione di cui il pds costituisce uno degli snodi indefettibili». E dunque «nel suddetto speciale ambito normativo - da intendersi conchiuso - che vanno individuati, in via esclusiva, le ragioni ostative (all'emersione, ma anche) al rilascio del titolo di soggiorno, senza che, una volta esaurito il primo snodo (emersione), sia possibile smarrire il nesso di pregiudizialità/dipendenza che lega ad esso le ulteriori fasi di un procedimento complesso ma sostanzialmente unitario» (TAR Campania, Napoli, sezione sesta, sentenza 15 luglio 2015, n. 3778; analogamente, tra le altre, TAR Campania, Napoli, sezione sesta, sentenza 16 gennaio 2015, n. 334).

"Peraltro, - ha continuato la Corte - alcune pronunce, che pure hanno ritenuto l'autonomia dei procedimenti (di emersione e di rilascio del permesso di soggiorno), hanno tuttavia rimarcato l'esistenza tra gli stessi di un rapporto di «presupposizione/conseguenzialità», ponendo in rilievo le ricadute del primo sul secondo (TAR Lazio, Roma, sezione seconda quater, sentenza 7 febbraio 2013, n. 1373; si veda anche Consiglio di Stato, sezione terza, sentenza 14 novembre 2012, n. 5736, secondo cui, «il permesso di soggiorno che consegue all'emersione altro non è che l'effetto dell'emersione stessa»)".

Per quanto riguarda invece il mancato tentativo di interpretazione conforme, impossibile secondo il giudice a quo, la Corte ha spiegato che "la motivazione risulta contraddittoria e lacunosa" perché da un lato sostiene di non poterla interpretare in quel senso e, dall'altro, spiega che tale interpretazione sarebbe possibile valorizzando la natura unitaria del procedimento che però reputa impediti da riscontri sicuri nel testo della legge e dal diritto vivente.

Peraltro la Corte ha spiegato che neppure è corretta la considerazione del giudice a quo sull'esistenza di un diritto vivente contrario: "Il TAR non ha, infatti, considerato che la praticabilità di un'interpretazione costituzionalmente orientata va verificata in riferimento non alle norme censurate, bensì al citato art. 1-ter (che disciplina l'emersione del lavoro irregolare), allo scopo di stabilire se, come puntualmente dedotto dall'Avvocatura generale, quest'ultimo regolamenti in modo autonomo, completo ed esaustivo il procedimento, anche con riguardo ai requisiti del permesso di soggiorno.

Al riguardo, va rilevato che all'indirizzo richiamato dal TAR (non correttamente, come precisato di seguito, e tutt'altro che prevalente), secondo il quale è applicabile il censurato art. 4, comma 3, al permesso di soggiorno richiesto in relazione all'emersione del lavoro irregolare, si contrappone un orientamento che, anche a seguito della sentenza n. 172/2012, reputa invece che le cause ostative alla regolarizzazione siano quelle sole stabilite dalle norme che disciplinano (distintamente ed in modo completo) il procedimento di emersione del lavoro irregolare. A quest'ultimo vanno ricondotte le sentenze che hanno negato il cosiddetto automatismo espulsivo anche nel caso di condanna per il reato dell'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 (in quanto riconducibile tra quelli previsti dall'art. 381 cod.proc.pen.), sia pure in relazione alla disciplina della regolarizzazione del lavoro oggetto dell'art. 5, comma 13, del d.lgs. n. 109 del 2012 (tra le altre, TAR Lombardia, Milano, sezione seconda, sentenza 21 luglio 2016, n. 1481; TAR Toscana, Firenze, sezione seconda, sentenza 4 maggio 2015, n. 703; TAR Campania, Napoli, sezione sesta, sentenza 16 gennaio 2015, n. 312; TAR Piemonte, Torino, sezione prima, sentenza 16 aprile 2014, n. 612). Quest'ultima norma, come sopra accennato, stabilisce infatti una disciplina che, nei profili qui rilevanti, è sostanzialmente omologa a quella prevista dal citato art. 1-ter, comma 13, e ciò rende utilmente richiamabile tale orientamento".

La Consulta ha concluso ammonendo il giudice a quo circa il mancato esperimento del tentativo (obbligatorio) di interpretazione conforme, nonostante l'asserito diritto vivente: "l'assunto del giudice a quo, in ordine all'esistenza di un diritto vivente che lo avrebbe costretto necessariamente verso l'esegesi che egli sospetta affetta da incostituzionalità (ord. 194/2012), con conseguente inadempimento dell'onere di sperimentare la praticabilità di una interpretazione costituzionalmente orientata (per tutte, sentenza n. 203 del 2016)".

L'ordinanza 58/2017 sull'obbligo di motivazione nei procedimenti amministrativi

Con l'ordinanza n. 58/2017, in tema di obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi e possibilità di integrazione della motivazione in sede processuale, la Corte ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale posta sull'art. 21-octies, l. 241/1990 in relazione agli artt. 24, 97, 113 e 117 Cost.

La vicenda

Con ordinanza del 19 gennaio 2015, la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione siciliana, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 21-octies, comma 2, primo periodo, della l. 241/1990, in riferimento agli artt. 3, 97, 24, 113 e 117, primo comma, della Costituzione.

La questione, così prospettata, è stata sollevata in un processo avente ad oggetto la domanda di annullamento dell'atto con cui la Direzione provinciale del Tesoro ha comunicato ad una pensionata l'avvio di un procedimento di recupero, sui ratei della pensione percepita, di somme indebitamente erogate. Nel giudizio a quo la ricorrente aveva lamentato l'impossibilità di comprendere le ragioni di fatto e di diritto della disposta ripetizione. Sul presupposto che la Direzione provinciale del Tesoro e poi l'Inps avrebbero fornito in corso di giudizio motivazioni integrative della impugnata comunicazione, il giudice a quo aveva dubitato della legittimità costituzionale della disposizione citata, nella misura in cui è possibile integrare in sede processuale la motivazione del provvedimento amministrativo anche dopo un rilevante periodo di tempo.

Secondo la Corte rimettente, la norma si porrebbe in contrasto: con gli artt. 24, 97 e 113 Cost., costituendo, l'obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi, un corollario dei principi di buon andamento e di imparzialità dell'amministrazione, in quanto consente al destinatario del provvedimento che ritenga lesa una propria situazione giuridica di far valere la relativa tutela giurisdizionale, senza che assuma alcuna rilevanza al riguardo la natura discrezionale o vincolata dell'atto; con l'art. 117, primo comma, Cost., in quanto la norma contravverrebbe ai principi dell'ordinamento comunitario come interpretati dalla Corte di giustizia dell'Unione europea, la quale avrebbe sempre affermato l'impossibilità di integrare la motivazione di un provvedimento amministrativo nel corso del processo; con l'art. 3 Cost., per la disparità di trattamento che ne conseguirebbe, in termini di tutela giurisdizionale, tra atti derivati dalla normativa comunitaria e atti esclusivamente interni; con il principio della separazione dei poteri, in quanto consentirebbe al giudice di sostituirsi all'amministrazione integrando la motivazione dell'atto.

La decisione

La questione è stata dichiarata manifestamente inammissibile, per difetto di motivazione e per mancata interpretazione conforme. La Corte ha ricordato di essersi già occupata di un caso analogo con l'ordinanza n. 92 del 2015 e ha precisato che "il meccanismo dettato dalla norma non altera in alcun modo il diritto di difesa, né arreca un pregiudizio alle ragioni sostanziali del ricorrente, collegandosi invece alla carenza di interesse del ricorrente stesso a ottenere l'annullamento di un atto che l'amministrazione potrebbe successivamente reiterare con identico contenuto".

La sentenza n. 53/2017 sull'indennità di disoccupazione agricola

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 53 del 10 marzo 2017, ha dichiarato l'illegittimità dell'esclusione dell'indennità di disoccupazione solo per i lavoratori agricoli con i contributi ridotti, maturata per i periodi lavorati nel 2012 e affermando che alla stessa soluzione si sarebbe potuti giungere con interpretazione costituzionalmente conforme.

La Corte Costituzionale "salva" la responsabilità civile dei magistrati

Come fa sapere in un comunicato stampa diffuso il 3 aprile 2017 la Corte costituzionale ha esaminato alcune questioni di costituzionalità della legge n. 18 del 2015, sulla responsabilità civile dei magistrati.

In attesa di conoscere le motivazioni, che saranno depositate nei prossimi giorni, si apprende che la Consulta ha dichiarato inammissibili le questioni sollevate dai Tribunali di Verona, Treviso, Catania ed Enna e non fondata la questione sollevata dal Tribunale di Genova, relativa alla abolizione del filtro di ammissibilità dell'azione risarcitoria nei confronti dello Stato.

Le discussioni di aprile

Ad aprile la Corte Costituzionale discuterà, tra le altre, le seguenti questioni:

1) Misure a tutela delle aree colpite da xylella fastidiosa: il governo ha impugnato la legge regionale n. 7 del 2016.

2) Immunità parlamentari: il tribunale di Bergamo ha promosso conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Senato della Repubblica. (impugnazione della deliberazione del Senato della Repubblica del 16 settembre 2015 sulla insindacabilità delle opinioni espresse ai sensi dell'art. 68, comma 1, Cost.). Secondo il Tribunale di Bergamo, le dichiarazioni rese dal Senatore, non sarebbero riconducibili all'attività parlamentare dell'imputato-senatore per il reato di diffamazione aggravata e per aver commesso il fatto per finalità di discriminazione razziale.

3) Delitto di favoreggiamento della immigrazione clandestina: il gip di Ragusa ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 12, commi 3 e 3-ter del t.u.i. nella parte in cui prevede sanzioni pecuniarie fisse in violazione degli artt. 3 e 27 della Costituzione.

4) Reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti: il tribunale di Varese dubita delle norme che disciplinano la fattispecie in esame, per violazione degli artt. 3, 25 e 27 Cost. in quanto le sanzioni amministrative pecuniarie, introdotte in sostituzione delle sanzioni penali, ai sensi del d.lgs. 8/2016, avrebbero natura sostanzialmente penale.

5) Contribuzione a carico dell'avvocato già titolare di trattamento pensionistico INPS: il rimettente giudice del tribunale di Palermo, sul caso di un avvocato già titolare di un trattamento previdenziale Inps, ha denunciato la violazione del principio di eguaglianza, opportunità e ragionevolezza in relazione agli artt. 10 e 22, co. 2, della legge 576/1980 (recanti la disciplina del contributo soggettivamente obbligatorio e l'obbligo di iscrizione alla Cassa con le sanzioni correlate all'iscrizione d'ufficio).


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