Confermata dalla Cassazione la condanna di due imputati a due mesi di reclusione per le espressioni di "sfogo" rivolte al magistrato in udienza

di Marina Crisafi - Può valere una condanna per oltraggio chiedere a un magistrato durante l'udienza "da quanto tempo fa il giudice" invitandolo a leggersi gli atti e facendogli notare che "sta sbagliando". È quanto è capitato a due imputati che in aula si lasciavano andare al descritto sfogo verbale, beccandosi una condanna a due mesi di reclusione ciascuno per aver offeso il magistrato, confermata anche dalla Cassazione, con la sentenza n. 36648/2015 depositata ieri (qui sotto allegata).

Per gli Ermellini, infatti, non regge la tesi del legale dei due uomini che lamenta una visione troppo rigida, in quanto le espressioni utilizzate, "non erano rivolte a ledere il prestigio del magistrato, ma erano una chiara espressione di risentimento, rivolto a disapprovarne l'operato".

Ai fini della configurabilità del delitto di oltraggio ad un magistrato in udienza, ha affermato infatti la S.C., "rientrano nell'ambito del legittimo esercizio del diritto di critica solo le espressioni o gli apprezzamenti che investono la legittimità o l'opportunità del provvedimento in sé considerato, non invece quelli rivolti alla persona del magistrato".

E nel caso di specie, ha ragione il giudice d'appello ad aver applicato la norma incriminatrice, evidenziando che nel corso dell'udienza gli imputati, in concorso tra loro, "hanno avuto di mira la persona del magistrato nel pieno esercizio delle sue funzioni", indicandolo, attraverso la pronuncia di quelle frasi, "in pubblico, come una persona sprovveduta e professionalmente incompetente, compromettendo la funzione stessa che il magistrato in quel momento stava svolgendo".


Analoghe le conclusioni del Palazzaccio in ordine ai reati di ingiuria e minaccia nei confronti del togato: contrariamente a quanto asserito dalla difesa, che sosteneva la mancanza di "alcun intento intimidatorio" da parte dei due uomini, la condotta posta in essere dagli stessi, "consistita nell'attendere il magistrato fuori dal palazzo di giustizia e nel seguirlo gridandogli contro frasi dall'univoco significato ingiurioso e minatorio" non può che far confermare la pena detentiva.

Cassazione, sentenza n. 36648/2015

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