Una donna, condannata agli arresti domiciliari, ha preferito tornare in carcere, ed ha avvertito quindi i carabinieri per poi attenderli sotto la propria abitazione. Fatto che le è costato una condanna per evasione. 


Sembra l'incipit di una bizzarra storia, ma è proprio quello che è accaduto a una detenuta di Vimercate, che, stanca di restare agli arresti domiciliari (forse per solitudine o forse per conflitti con i propri familiari), ha deciso di chiamare le forze dell'ordine chiedendo di essere riportata in carcere. La donna, preparate le due valigie per il rientro in cella, decide di attendere i carabinieri in strada: una negligenza che le è costata una condanna a 5 mesi e 10 giorni di reclusione dal Tribunale di Monza.  

La detenuta ha proposto quindi appello,  spiegando che il suo comportamento   non era certo quello di chi intende sottrarsi alla pena detentiva, anzi, lei aveva chiesto un livello di restrizione di livello ancora più pesante rispetto ai domiciliari.

Ma neppure  la Corte di Appello di Milano ha voluto sentire ragioni ed ha dichiarato l'inammissibilità dell'appello per manifesta infondatezza.

A cambiare le carte in tavola è stata, però, la Suprema Corte di Cassazione (sentenza n. 21620/2014), che  accogliendo le doglianze della detenuta ha ordinato ai giudici di merito di riesaminare il fatto. La Suprema Corte ha evidenziato che la Corte d'Appello non ha correttamente valutato le doglianze della donna basandosi solo sull'assunto che "il dolo del delitto di evasione consiste nella mera consapevolezza e volontà di violare le prescrizioni attinenti alla misura restrittiva in atto, a nulla rilevando il fine ulteriore perseguito dall'agente". Un rilievo che, spiega la Corte di Cassazione, attiene al merito della vicenda. Inoltre, la tesi contraria, sostenuta dalla difesa della donna, non appare inconferente e non può essere liquidata con una pronuncia di inammissibilità per manifesta infondatezza. 

Vai al testo della sentenza della Corte di Cassazione n. 21620 /2014

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