Un padre di religione islamica, che tenta di soffocare la figlia con un sacchetto sentendosi disonorato dopo la scoperta di una relazione sentimentale che la stessa intratteneva con un ragazzo non musulmano, risponde di tentato omicidio, non aggravato dalla futilità dei motivi.

Lo ha stabilito la prima sezione della Cassazione Penale, con la sentenza n. 51059/2013, esprimendo un'opinione completamente contraria rispetto a quella della Corte d'Appello che, invece, ha ritenuto sussistente la circostanza aggravante della futilità dei motivi.

Prima di scorgere le ragioni espresse della Suprema Corte che sostengono l'inapplicabilità dell'aggravante in esame, giova effettuare una breve disamina sul concetto di futilità del motivo.

Il motivo è la causa propulsiva del reato, mentre il reato ne costituisce l'effetto, la conseguenza. Ebbene, l'aggravante di cui all'art. 61, co.1, n. 1, c.p., prevede un peggioramento della pena qualora il motivo sia abietto o futile che, secondo giurisprudenza costante, sussiste "quando la determinazione criminosa sia stata causata da uno stimolo esterno così lieve, banale e sproporzionato rispetto alla gravità del reato, da apparire, secondo il comune modo di sentire, assolutamente insufficiente a provocare l'azione criminosa, tanto da potersi considerare più che una causa determinante dell'evento, un mero pretesto per lo sfogo di un impulso criminale (Cassazione, sez. I, n. 39261/2010).

È oltretutto pacifica in giurisprudenza la natura soggettiva della circostanza in esame, atteso che la futilità del motivo è indice univoco di un istinto criminale particolarmente spiccato e di una grave pericolosità del soggetto. Ed è proprio la connotazione soggettiva dell'aggravante in questione che impone una riflessione sul contesto sociale in cui si verifica l'evento e sui fattori ambientali che possono aver condizionato la condotta.

Tornando al caso sottoposto al vaglio dei giudici della Cassazione, l'imputato ha agito perchè si è sentito disonorato dalla figlia, la quale, da minore e senza essere sposata, aveva avuto dei rapporti sessuali con un ragazzo non musulmano, violando i precetti dell'Islam.

È oltremodo scontato ritenere che i motivi che hanno spinto l'imputato a delinquere non possano essere condivisibili, nella moderna società occidentale, ma è anche pacifico pensare che il contesto culturale sia idoneo ad esclude la futilità dei motivi.

I fenomeni di immigrazione di massa, cui assistiamo negli ultimi tempi, hanno dato adito a dibattiti dottrinali e giurisprudenziali, mossi dall'obiettivo di dare una risposta alla questione dell'applicabilità della sanzione penale ad un soggetto appartenente ad uno Stato straniero che commette un fatto considerato illecito nel nostro Paese, ma tollerato o accettato nel luogo di provenienza. Il problema che si sta affrontando è quello dei "reati culturalmente orientati" (c.d. cultural defense), così nominati appunto perché commessi da soggetti appartenenti a etnie diverse dalla nostra, in ossequio ad usanze e tradizioni culturali considerate legittime in altri paesi.

È, quindi, possibile giustificare dei fatti delittuosi in ragione di una pacifica convivenza tra etnie diverse?

I metodi di approccio a fronte di siffatte questioni sono essenzialmente due e, brevemente, tenteremo di esporli.

Secondo il metodo francese (c.d. assimilazionista), tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge e, dunque, se commettono un reato devono essere puniti a prescindere dalla provenienza sociale o culturale.

Secondo il metodo statunitense (c.d. multiculturalista), ispirato ad una logica garantista, il reato culturalmente orientato andrebbe valutato con minor rigore, allorquando lo stesso è considerato lecito dall'ordinamento di provenienza. Nell'ambito di questo secondo modello, ci sono coloro che ritengono di mandare assolti i soggetti che compiono fatti illeciti, ma consentiti in altri paesi.

Il nostro ordinamento si orienta verso il modello assimilazionista, atteso che non si può tollerare la lesione o la messa in pericolo di beni costituzionalmente riconosciuti al fine di mettere in pratica principi appartenenti alla cultura di provenienza.

In tal senso si esprime, ormai costantemente, la giurisprudenza, propensa, al più, a riconoscere rilevanza alla cultura di minoranza sotto il profilo della commisurazione della pena, ex art. 133 c.p.

Consentendo al giudice di muoversi all'interno del quadro edittale in senso garantista (applicando pertanto una pena "al ribasso"), è lecito chiedersi se è, talvolta, ammissibile una disapplicazione delle circostanze aggravanti, in ragione delle caratteristiche culturali del reo.

Tornando al punto da cui si è partiti, la Corte di Cassazione ha ritenuto di escludere l'aggravante dei futili motivi "non potendosi definire né lieve né banale la spinta che ha mosso l'imputato ad agire". In sostanza, il disonore per la famiglia e per la cultura musulmana - i cui precetti sono stati violati - è il motivo che induce il padre a tentare di soffocare la figlia e non può essere considerato un mero pretesto per compiere un delitto.

 


Dott.ssa Chiara Mazza -?mazzachiara@libero.it

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