di Licia Albertazzi - Cassazione Civile, sentenza n. 6093 del 12 Marzo 2013
Il dettato normativo di cui all'art. 2236 codice civile (responsabilità del prestatore d'opera) è piuttosto chiaro: la complessità dell'incarico affidato al professionista può fungere da limite all'attribuzione di responsabilità per la cattiva riuscita dell'opera salvo che ci sia l'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave. In particolare, in tema di responsabilità medica, la limitazione del caso di particolare complessità ha efficacia soltanto per la perizia, escludendo decisamente dal novero sia negligenza che imprudenza. In questi due ultimi casi il medico risponde in qualsiasi circostanza.

Nel caso di specie il medico resistente, primario di un istituto di cura - citato in giudizio a seguito di errore diagnostico -  ha argomentato la propria difesa puntando sulla particolare complessità del quadro clinico prospettatogli, estendendo l'interpretazione del sopra menzionato articolo anche a tutti e tre gli elementi da cui scaturisce la colpa (appunto negligenza, imprudenza e imperizia).

La Suprema Corte ha tuttavia sottolineato come il primario abbia la piena responsabilità dei malati appartenenti alla propria divisione, e come su di lui gravi l'onere di conoscere le situazioni cliniche di ciascuno nonché di assumere tutte le informazioni necessarie per curare al meglio i pazienti stessi. L'omissione di questi comportamenti integra senza dubbio ipotesi di negligenza; fatto che il nostro ordinamento non scusa in alcun modo.

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