"Deve ritenersi l'esistenza di una giusta causa di licenziamento, che implica la grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, per come desumibile dalla natura dei fatti addebitati al lavoratore, con riferimento ad ogni componente, soggettiva ed oggettiva dei medesimi, e dal grado di affidamento richiesto dai compiti dallo stesso disimpegnati in relazione alla realizzazione degli scopi perseguiti dal datore di lavoro, allorché il dipendente violi disposizioni legali e regolamentari che regolano l'esecuzione della prestazione e che sono volte a garantire la qualità e l'affidabilità del servizio erogato dal datore di lavoro e a proteggere il diritto alla salute degli utenti del servizio stesso". Questo il principio di diritto fissato dalla Sezione lavoro della Corte di Cassazione con la sentenza
n. 8458 del 13 aprile 2011 in merito al ricorso proposto da un'Azienda USL avverso la sentenza con la quale la Corte d'Appello dichiarava l'illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato a un dirigente medico per avere consentito che un'ostetrica effettuasse un intervento chirurgico di taglio cesareo. La Corte territoriale aveva confermato la violazione da parte del sanitario delle norme dettate nella materia ma aveva ritenuto sproporzionata la sanzione del licenziamento non essendosi trattato di un fatto di tale gravità da ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario. La Suprema Corte, accogliendo il ricorso, afferma, contrariamente ai giudici di merito, che nel comportamento del dipendente dovesse essere ravvisata la violazione di elementi essenziali del rapporto di lavoro, ed in particolare dell'elemento fiduciario, come emergente dalla gravità dei fatti alla luce del grado di affidamento richiesto dalle mansioni e dal ruolo rivestito dal sanitario, che imponevano la scrupolosa osservanza di norme primarie, poste a garanzia della qualità del servizio e a protezione della salute dei pazienti.

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