Dr. Luigi Vitale - Fanno discutere le decisioni prese nei giorni scorsi in due luoghi distanti e strategici per l'economia mondiale, gli Stati Uniti e il Giappone, relative all'aumento delle retribuzioni dei lavoratori, quale ricetta per aumentare il potere d'acquisto e, per questa via, costituire un volano per la ripresa economica.

Le proposte: Obama e Abe


Il riferimento è, innanzitutto, alla proposta di Barack Obama inerente l'aumento del salario minimo dei dipendenti, riportando il costo orario del lavoratore in linea con il potenziale potere di acquisto deterioratosi negli ultimi anni. In realtà, scavalcando il Congresso, per riuscire a varare il provvedimento, ritenuto necessario ad affrontare le disuguaglianze economiche, non avendo trovato il favor dei repubblicani, Obama ha già firmato nei giorni scorsi un decreto presidenziale per l'aumento del salario minimo da 7,25 a 10,10 dollari l'ora. L'aumento, tuttavia, riguarderà solo i dipendenti del governo federale, cioè poche migliaia di persone, perché i poteri del capo della Casa Bianca non possono estendersi a tutti i lavoratori americani senza una legge approvata dal Congresso (in questo caso, il beneficio riguarderebbe milioni di lavoratori). Con tale mossa, Obama spera di esercitare pressione sui repubblicani, spingendoli ad approvare un incremento che servirebbe a rilanciare i consumi e, quindi, la ripresa.
Una decisione analoga è stata presa dal premier Shinzo Abe in quel Giappone che da anni è a rischio di deflazione per il persistere della contrazione della domanda. Anche qui, il livello nominale dei salari è rimasto stagnante per molto tempo e i dipendenti giapponesi hanno perso, a causa della deflazione, un potere d'acquisto pari, nell'ultimo decennio, a un importo superiore al Pil annuo di Danimarca, Malesia o Singapore. Abe ha, quindi, annunciato la "wage surprise", invitando ad uno sforzo concentrato per l'aumento della retribuzione dei lavoratori che porterebbe, secondo il premier giapponese, ad un'inversione di tendenza per far riprendere una traiettoria ascendente e di lungo periodo all'economia.

Pro e contro


Per i c.d. "New Keynesian" queste iniziative sono destinate al successo: nei modelli "mainstream", infatti, quando un'economia si trova in una "trappola della liquidità", come nel momento attuale, uno shock negativo sul fronte dell'offerta, come può essere l'aumento salariale, può avere un effetto espansivo, comportando un aumento proporzionale della domanda aggregata. Ciò porterebbe ad un consequenziale aumento della produzione oltre ad una diminuzione della disoccupazione. In definitiva, la fine della recessione e della crisi.
Intanto, dopo anni di austerity come unica via per la ripresa, anche il governo tedesco sembra aprirsi alla direzione auspicata da Obama e dagli economisti neokeynesiani, annunciando nel piano di governo, tra le altre riforme, l'istituzione di un salario minimo legale a 8,50 euro l'ora (che, al cambio corrente, equivale a più di 11 dollari), con una politica graduale da applicare prima ai lavori meno remunerati che, però, farebbe da sprone per innalzare l'intera piramide retributiva.
Dall'altra parte, invece, i repubblicani d'America attaccano con vigore il presidente, sulla base anche del rapporto sugli effetti di tale politica previsti dal Congressional Budget Office (Cbo), l'agenzia federale per i dati economici, secondo il quale l'aumento porterebbe ad un netto aumento dei costi e, dunque, ad una perdita, si stima, di oltre 500.000 posti di lavoro.

L'esempio del '29


Prima di Obama e Abe, a sfidare il concetto liberale molto radicato nel nuovo continente degli anni '30, fu il presidente americano Franklin Roosevelt. Il suo National Recovery Act, con il quale si stabilirono standard per gli orari e le retribuzioni dei lavoratori, e il successivo Fair Labor Standards Act con il quale si consolidarono il salario minimo, il tetto settimanale di lavoro, oltre alla proibizione del lavoro minorile, hanno rappresentato una grande lezione per tutto il mondo civile e una risposta incisiva alla Grande Depressione del '29 che fu superata grazie al New Deal.

Un'alternativa all'austerity e all'uscita dalla crisi


Anche se l'attuale crisi finanziaria è per importanza assai simile a quella del '29, non si possono non considerare alcune differenze sostanziali. Prima fra tutte, il fatto che oggi l'economia è globalizzata e, pertanto, il fallimento di una banca o di una grande azienda decreta una crisi mondiale. La competizione commerciale riguarda tutte le aziende del globo e se aumentare il salario dei dipendenti offre uno stimolo alla crescita dei consumi e quindi della domanda, ciò, tuttavia, non è scontato. È vero, infatti, che l'aumento del costo del lavoro e, dunque, del potere d'acquisto potrebbe non essere destinato al consumo, ma al risparmio (o al pagamento dei debiti, ad esempio) facendo vedere i suoi benefici solo nel lungo periodo. Questo farebbe lievitare i prezzi, comportando un alto rischio di inflazione che, per le aziende significa uscire dal mercato, fallire. A meno che l'intervento di altre dinamiche, quali l'aspettativa dell'aumento dei prezzi, non spinga all'accelerazione della domanda e, dunque, ai consumi e agli investimenti, agendo a favore della ripresa.
In definitiva, emerge come questa non può essere la sola strada da seguire. La trasparenza dei bilanci, la consapevolezza degli obiettivi di lavoro e di remunerazione, condivisa da tutti i soggetti di un'azienda (tecnicamente, shareholders e stakeholders) potrebbero spontaneamente creare i presupposti di un'impresa possibile e competitiva sul mercato mondiale. Lo Stato allora, deve certamente intervenire, anche penalmente, ma cominciando ad imporre bilanci accessibili a chiunque e contabilmente corretti, facilitando l'incontro fra le parti e mediando gli interessi legittimi, applicando un'adeguata pressione fiscale e ridistribuendo equamente la ricchezza, con investimenti accorti e mirati, nello studio e nella ricerca. Questi sarebbero gli interventi statali più utili, con buona pace di Keynes.

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