Per la Cassazione va condannato l'avvocato che con artifici e raggiri rende l'assistito fiducioso dell'effettività di una tutela inesistente e si fa pagare

di Valeria Zeppilli - Commette una truffa contrattuale il legale che nasconde all'assistito, con artifici o raggiri, un proprio inadempimento, così come quello che non sia onesto e non riveli al cliente la sua impossibilità ad essere tutelato legalmente o perché il diritto è decaduto o per qualsasi altra ragione. In particolare il reato è integrato quando il cliente, che confida nell'effettività della tutela, conferisce al professionista il mandato o glielo rinnova e così gli fa percepire un profitto ingiusto.

Questo almeno è quanto ricordato dalla seconda sezione penale della Corte di cassazione con la sentenza numero 25680/2016, depositata il 21 giugno e qui sotto allegata.

Nel caso di specie, il legale aveva riferito in più occasioni a un cliente, persona offesa da un reato, di aver proposto per lui un'impugnazione. In realtà, però, non vi aveva mai provveduto.

L'ignaro cliente, confidando nella buona fede del suo avvocato e soprattutto confidando dell'esito positivo della vicenda, pagava al professionista l'importo di euro 6.500 a mezzo assegno bancario.

Il comportamento del legale, però, non può passare inosservato: sia in primo che in secondo grado esso era stato infatti considerato come idoneo ad integrare un'ipotesi di truffa, peraltro aggravata dalla circostanza che la stessa era stata commessa con abuso di prestazione d'opera.

La condanna era stata quella alla pena di sette mesi di reclusione e quattrocento euro di multa.

Rivolgendosi ai giudici di legittimità, oltre che per vizio di motivazione in ordine all'individuazione dell'elemento oggettivo del reato di truffa, il legale aveva tentato di fare leva sulla violazione dei criteri legali di valutazione della prova a discarico, sul mancato rispetto del principio di correlazione tra imputazione contestata e sentenza

e sulla mancanza e sulla contraddittorietà della sentenza impugnata in ordine alla valutazione di attendibilità della persona offesa.

Ma nessuno di essi ha dato l'esito sperato: alla luce del principio sopra visto e di altre specifiche precisazioni la condanna è confermata anche dalla Cassazione.

Corte di cassazione testo sentenza numero 25680/2016
Valeria Zeppilli

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