Dr. Luigi Vitale - In un recente articolo si era accennato al legal marketing "Nuove frontiere per il marketing degli studi legali" come nuova frontiera per gli avvocati italiani, impegnati ad investire risorse nella pubblicità delle proprie attività professionali, passaggio fondamentale per posizionarsi sul mercato odierno, estremamente concorrenziale, ed acquisire clientela. 

Come avviene, del resto, analogamente, in tutti gli altri settori del nostro sistema sociale ed economico che, da molti anni, per rispondere giocoforza alle sfide della globalizzazione, ha assimilato la competizione commerciale come il mezzo più efficace per produrre beni e servizi e farli fluire al consumatore al prezzo più basso e, al contempo, al miglior livello qualitativo. 

Tutto ciò è frutto delle battaglie portate avanti, fin dal lontano dopoguerra, per liberare il mercato da "protezioni" tendenti a preservare interessi di parte a danno della maggioranza, che hanno trovato adeguato riconoscimento con la nascita, nel 1995, dell'Organizzazione Mondiale per il Commercio (WTO) cui aderiscono oggi 184 Paesi (compresa la Cina dopo 15 anni di trattative), avente lo scopo principale, appunto, di proteggere i consumatori dai vizi di mercato che possano produrre uno svantaggio economico, attraverso l'obbligo imposto ai membri di abolire le barriere tariffarie e garantire la libera concorrenza su beni commerciali, servizi e proprietà intellettuali.

Principi pacifici, dunque, e universalmente accettati che, tuttavia, sembrano non scalfire la professione forense, il cui nuovo codice, approvato nei giorni scorsi dal Cnf e avviato verso la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (per entrare in vigore 60 giorni dopo), si muove, invece, verso una rigidità e una chiusura controcorrente.

Nei 73 articoli, raccolti in 7 titoli, che formano l'impianto del codice, oltre al pugno di ferro sul dovere della competenza, sui conflitti di interesse e sulle sanzioni disciplinari in caso di violazione delle regole deontologiche (che vanno dall'avvertimento alla radiazione dall'albo nei casi più gravi), assumono, infatti, una posizione primaria i rapporti con la clientela, soprattutto sul versante della divulgazione delle informazioni sull'attività professionale. In particolare, nell'ambito dei rapporti con la parte assistita viene in rilievo la riaffermazione del "divieto di accaparramento della clientela".

Un'espressione sibillina che, se da un lato risponde ai generali doveri della correttezza e del decoro, ontologici alla stessa natura dell'obbligazione professionale, dall'altro, fissa dei paletti ben rigidi, vietando ogni forma di promozione, in termini di offerte o vantaggi nelle prestazioni (attività base della libera concorrenza). Una regola che, letta in combinato disposto, con i principi sull'informazione, che stabiliscono limiti precisi sulla pubblicità dell'attività legale (come ad es. quello dei siti web con domini propri senza indirizzamento, il che si traduce nel divieto di qualsiasi forma di advertising digitale), non può che essere interpretata, secondo i più, come il divieto di pubblicizzare il proprio studio professionale in qualsiasi forma, vietando così qualsiasi comunicazione rivolta al pubblico che possa indicare una soluzione vantaggiosa per il potenziale cliente. 


In sostanza, un giro di vite molto stretto sull'auspicata nuova era del legal marketing e della libera concorrenza che viene considerata, dagli addetti ai lavori, come una illegittima limitazione alla libertà di espressione e alla possibilità di scegliere, da parte del pubblico, la soluzione più conveniente per il proprio caso personale. Una potente discriminazione, inaccettabile in uno stato civile.
luigivitale.wordpress.com


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