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Ricordate inolter di chiedere che la risposta vi sia fornita in forma chiara e complensibile ma che sia anche corredata di tutti i riferimenti giurisprudenziali e normativi.
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Come proporre dunque il vostro questito?
Evitate di dilungarvi troppo e andate all'essensiale. Ecco un esempio di come potreste porre una domanda:
Da circa 22 anni ho in uso un appartamento senza aver mai stipulato alcun
tipo di contratto. Durante i primi cinque anni in cui ho posseduto
l’immobile ho anche eseguito per conto dei proprietari alcuni lavori senza
percepire alcuna remunerazione e ho provveduto a ristrutturare
l’appartamento che necessitava di interventi strutturali. Solo negli
ultimi cinque anni ho corrisposto un canone di 300 euro mensili su
pressione del proprietario. Ora mi è stato chiesto di lasciare libero il
locale e vorrei sapere se, dato il tempo trascorso, posso considerarlo di
mia proprietà per averlo usucapito. Se questa strada non fosse
percorribile vorrei sapere se posso chiedere il pagamento dei lavori che
non mi furono remunerati. Segnalo inoltre che anche negli ultimi anni ho svolto
qualche lavoro non retribuito sia pure di minore entità.
La risposta in un caso come quello proposto dovrebbe contenere tutti gli elementi necessari per consentirvi di trovare soluzioen al vostro problema. Ecco un esempio di risposta:
Gentile utente, per rispondere al quesito è necessaria una premessa di
carattere generale. L’usucapione, detta anche prescrizione acquisitiva, è
disciplinata dagli artt. 1158 - 1167 del nostro Codice Civile e consiste
nell’acquisto della proprietà a titolo originario mediante il possesso
continuato nel tempo. L’art. 1158 c.c. in particolare stabilisce che “la
proprietà di un bene immobile e gli altri diritti reali di godimento sui
beni medesimi si acquistano in virtù del possesso continuato per venti
anni”; ciò significa che la condizione necessaria per maturare
l’usucapione, e quindi il diritto di proprietà su un bene immobile, è che
vi sia stato un possesso continuato e di durata ventennale. Questa
continuità viene a mancare, impedendo così l’acquisto per usucapione, nel
momento in cui si verifica una interruzione del possesso. A tale proposito
l’art. 1165 del codice civile richiama, in quanto compatibili con
l’usucapione, le norme che il nostro ordinamento giuridico prevede in
generale per l’interruzione della prescrizione (artt. 2943 – 2945 c.c.).
Tra le diverse cause di interruzione, la giurisprudenza (Cass. civ., 13
agosto 1985, n. 4428 e Cass. civ., 7 maggio 1987, n. 4215) considera tale
(ai sensi dell’art. 2944 c.c.) il riconoscimento da parte del possessore
del diritto altrui, che può desumersi anche da fatti concludenti. Ora, se è
vero che lei ha posseduto da 22 anni ad oggi l’appartamento di cui
vorrebbe usucapire la proprietà, è anche vero che prima che fosse decorso
il termine ventennale ha corrisposto un canone di locazione. Così facendo,
lei ha compiuto un atto di riconoscimento della proprietà altrui e
interrotto il termine per maturare l’usucapione.
Un altro
problema che è dato dalla natura del possesso. Lei dice che non ha
stipulato nessun contratto. In realtà il problema è solo di natura
probatoria. Mi spiego meglio. Nel nostro ordinamento giuridico vige, ai
sensi dell’art. 1325 n. 4 c.c., il sistema della libertà delle forme per
la stipulazione dei contratti. Fatti salvi i casi espressamente stabiliti
dalla legge per i quali è prevista la forma scritta a pena di nullità, è
dunque sufficiente, perché un contratto sia valido e produttivo di
effetti, che la volontà delle parti sia manifestata qualunque sia il modo
o la forma di tale manifestazione. Nulla vieta che le parti stipulino un
contratto perfettamente valido anche oralmente. Lo stesso contratto di
locazione (ad eccezione di quelli che prevedono una scadenza
ultranovennale - per i quali la legge impone la forma scritta - ma quelli
per uso abitazione normalmente hanno una durata di 4 anni con tacita
riconduzione) rientra nel novero di quei contratti per i quali vi è piena
libertà di forme. Bisogna quindi valutare se in concreto le parti abbiano
posto in essere anche attraverso l’adempimento di determinati obblighi
reciproci un contratto qualificabile come locazione. L’art. 1571 prevede
che “la locazione è il contratto con il quale una parte si obbliga a far
godere all’altra una cosa mobile o immobile per un dato tempo, verso un
dato corrispettivo”. Una volta stipulato tale contratto, sulle parti
sorgono degli specifici obblighi. Tra quelli del locatore vi è, ai sensi
dell’art. 1575 c.c., quello di consegnare il bene al conduttore; e tra
quelli del conduttore, ai sensi dell’art. 1587 c.c., quello di versare il
corrispettivo canone. Inizialmente lei non ha corrisposto il canone
pattuito ma ha eseguito gratuitamente dei lavori operando una sorta di
compensazione tra dare e avere. Poi addirittura ha pagato le 300 euro
mensili richieste proprio come canone di locazione. In questo modo si è
posto in essere un vero e proprio contratto di locazione che preclude in
partenza la possibilità dell’usucapione. L’unico problema che può generare
un contratto “orale” è, infatti, la difficoltà, per la parte che vuole
dimostrarne l’esistenza, di offrire la prova dell’avvenuta sua
stipulazione. Ma può bastare anche una prova per testimoni.
Per quanto
riguarda i lavori condotti all’interno dell’immobile oggetto della
locazione, l’art. 1576 c.c. sancisce che è dovere del locatore, durante la
durata del contratto, eseguire tutte le riparazioni necessarie, a
eccezione di quelle di piccola manutenzione che sono a carico del
conduttore. Quando, poi, la cosa locata abbisogna di riparazioni che non
sono a carico del conduttore perché non di piccola manutenzione questi è
tenuto, ai sensi dell’art. 1577 comma 1, a darne avviso al locatore, e “se
si tratta di riparazioni urgenti, il conduttore può eseguirle direttamente
salvo rimborso, purché ne dia contemporaneo avviso al locatore”. L’art.
1592 del c.c. stabilisce, inoltre, che se il conduttore apporta
miglioramenti alla cosa locata senza il consenso del locatore (ad esempio
vengono rifatti i pavimenti) non ha alcun diritto a farsi indennizzare per
i miglioramenti apportati. Tutto ciò premesso è chiaro che le spese da lei
sostenute per il recupero strutturale del locale difficilmente potranno
essere recuperate. Questo sia sulla base di quanto disposto dagli articoli
appena indicati, sia perché manca, da quanto mi ha chiarito
telefonicamente, anche in questo secondo caso, la prova documentale di
dette spese. L’art. 2697 comma 1 c.c, stabilisce infatti che “chi vuol
fare valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne
costituiscono il fondamento”. A tutto ciò si aggiunga, infine, che la
spesa da lei sostenuta per il recupero del locale risale ai primi anni
in cui lei ha occupato l’immobile. Pertanto, trattandosi di un
diritto di credito, esso è soggetto alla disciplina dell’art. 2046 c.c in
base alla quale “salvi i casi in cui la legge dispone diversamente i
diritti si estinguono per prescrizione con il decorso di dieci anni”.
Per
quanto attiene il lavoro da lei prestato dobbiamo parlare di un credito
retributivo soggetto al termine di prescrizione quinquennale (art. 2948 n.
4 c.c.) che comincia a decorrere già nel corso del rapporto di lavoro. Se
lei ha lavorato anche negli ultimi cinque anni dovrà provare l’esistenza
di un contratto di lavoro. Così se lei ha svolto la sua attività presso
gli uffici del suo datore di lavoro soggiacendo alle sue direttive può
dimostrare l’esistenza di una forma di lavoro subordinato. Tenga conto
peraltro che è necessario conoscere il tempo che lei ha dedicato a tale
lavoro. Se si tratta di un part – time il Decreto legislativo n. 61 del
2000 all’art. 1 prevede per la validità di tale contratto la forma scritta
e “una puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e
della collocazione temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla
settimana, al mese e all’anno”. Ciò non toglie che ogni qual volta ci si
trovi in presenza di una prestazione di lavoro subordinato, quand’anche le
parti abbiano non previsto o escluso un obbligo retributivo, quest’ultimo
nasca automaticamente e sia azionabile dal lavoratore, salvo i casi in cui
si tratti di prestazioni svolte a titolo di cortesia. E’ suo diritto,
pertanto, promuovere un’azione in sede civile (Giudice del lavoro) per
ottenere il riconoscimento delle retribuzioni relative agli ultimi cinque
anni lavorativi. Tutto ciò a patto che riesca a fornire la prova
dell’esistenza del vincolo giuridico non scritto, delle direttive
impartitegli dal datore di lavoro e, non ultimo, dell’effettività della
prestazione lavorativa svolta. Sarà, poi, il Giudice a individuare la
corretta fattispecie contrattuale cui ricondurre il lavoro da lei prestato
e a determinare l’ammontare complessivo delle retribuzioni di sua
spettanza sulla base di quanto disposto dall’art. 2099 comma 2 del Codice
Civile.