Un breve viaggio tra il diritto romano e le testimonianze medievali: i placiti cassinesi

Acquisto del diritto di proprietà

L'acquisto del diritto di proprietà può avvenire secondo due modalità fondamentali: a titolo derivativo e a titolo originario, distinte in base all'esistenza di un rapporto giuridico tra il nuovo proprietario e un precedente titolare. Questa classificazione, recepita dalla dottrina civilistica tradizionale, assume rilievo non solo sistematico, ma anche pratico, poiché implica una differente struttura degli atti e dei requisiti richiesti per la produzione degli effetti traslativi o acquisitivi. L'acquisto a titolo derivativo presuppone un trasferimento del diritto di proprietà da un soggetto (dante causa) a un altro (avente causa), mediante un atto inter vivos o mortis causa. Tale trasferimento richiede, secondo l'impostazione romanistica accolta nel nostro ordinamento, la presenza di un titolo idoneo (iustus titulus) e di un modo di acquisto (modus adquirendi), in ossequio al principio consensualistico sancito dall'art. 1376 c.c., secondo cui nei contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa determinata, la costituzione o il trasferimento di un diritto reale ovvero il trasferimento di un altro diritto, la proprietà o il diritto si trasmettono e si acquistano per effetto del consenso delle parti legittimamente manifestato. Con riferimento ai beni immobili e agli altri diritti soggetti a trascrizione, l'efficacia del trasferimento tra le parti resta fondata sul consenso, ma ai sensi dell'art. 2643 c.c. la trascrizione è necessaria per l'opponibilità ai terzi e per dirimere eventuali conflitti tra più acquirenti dello stesso diritto. Inoltre, opera il brocardo "Nemo plus iuris transferre potest quam ipse habet", secondo cui nessuno può trasferire un diritto più ampio di quello che possiede. Questo principio garantisce certezza e stabilità nei passaggi di titolarità, evitando che si consolidino situazioni giuridiche difformi dalla realtà.

Diversamente, l'acquisto a titolo originario si realizza senza alcuna derivazione dal diritto di un precedente titolare: il diritto sorge ex novo in capo all'acquirente, in virtù di un fatto giuridico previsto dalla legge, al quale l'ordinamento attribuisce efficacia costitutiva, indipendentemente dal consenso o dalla partecipazione del precedente proprietario.

Non si tratta, pertanto, di un trasferimento, ma di un meccanismo attributivo diretto della titolarità, fondato su un fatto giuridicamente rilevante, come il possesso, che opera come presupposto legale per la nascita del diritto. La dottrina sottolinea come l'acquisto a titolo originario incida direttamente sull'altrui sfera patrimoniale, talvolta in assenza di una manifestazione di volontà, e perciò risulti subordinato a condizioni legali rigorose, volte a bilanciare l'interesse del possessore con quello del titolare originario, nel rispetto del principio della certezza dei rapporti giuridici.

Tra gli istituti riconducibili a tale forma di acquisto, l'usucapione riveste un ruolo centrale. Essa rappresenta uno strumento di stabilizzazione delle situazioni patrimoniali, attribuendo la proprietà (o altro diritto reale) a chi abbia esercitato un possesso uti dominus, pacifico, pubblico, ininterrotto e non viziato per un periodo di tempo determinato dalla legge (artt. 1158 ss. c.c.). La sua funzione è quella di sanare disallineamenti tra la situazione di fatto e la situazione giuridica formale, premiando la continuità del possesso e garantendo certezza nella titolarità dei beni.

Si fonda sull'esigenza, già avvertita nel diritto romano e riaffermata nella giurisprudenza contemporanea, di consolidare gli assetti di fatto e di prevenire conflitti legati all'incertezza sulla titolarità giuridica. Premia il possesso conforme alla legge e attribuisce valore alla continuità e stabilità nei rapporti reali, contribuendo alla sicurezza delle transazioni giuridiche e alla pace sociale.

Nel corso dei secoli, l'istituto si è evoluto adattandosi ai mutamenti economici e sociali, ma ha mantenuto intatta la sua funzione di strumento pragmatico di giustizia sostanziale: consente il riconoscimento giuridico di situazioni di fatto consolidate nel tempo, anche in assenza di un titolo formale. Pur appartenendo alla dimensione tecnica del diritto, riflette una visione concreta e dinamica della proprietà, intesa non solo come diritto assoluto e formale, ma anche come rapporto vivo e continuativo tra persona e bene.[1]

L'usus e le XII Tavole

L'istituto dell'usucapione (usucapio) fonda le sue radici nell'antico diritto romano, originariamente connesso alla pratica dell'usus, ovvero la disponibilità materiale di un bene da parte di soggetti diversi dal pater familias. In una società rigidamente gerarchica, dove il pater deteneva il mancìpium, un rapporto giuridico assoluto su persone e beni, la detenzione prolungata di una cosa da parte di un estraneo alla familia rappresentava una condizione inizialmente illegittima.

La Legge delle XII Tavole introdusse una svolta: se il pater non esprimeva esplicitamente la propria riserva su un bene dato in uso, il possesso protratto per un anno (per mobili) o due anni (per fondi) comportava il trasferimento del mancìpium all'usuario, segnando l'inizio del riconoscimento giuridico dell'acquisto della proprietà attraverso il possesso continuo, pubblico e ininterrotto, che avrebbe trovato più tardi un assetto sistematico nell'usucapione. Come ricorda il giurista Gaio nelle sue Istituzioni [Inst., II, 38-39]: "Usus anni interpositi sufficit ad emancipationem: nam et in XII tabulis hoc ita scriptum est, ut qui annum fundo alterumve usus esset, ei dominium adquireretur". (L'uso protratto per un anno è sufficiente per l'emancipazione: infatti anche nelle XII Tavole è scritto così, che chi abbia usato un fondo o altro per un anno, acquisti la proprietà). La testimonianza di Gaio deve essere interpretata con la dovuta cautela dal punto di vista storico-giuridico. Si tratta, infatti, di una rilettura ex post della normativa contenuta nelle XII Tavole, il cui testo originale non ci è pervenuto in forma integrale, ma solo attraverso frammenti e citazioni riportate da autori posteriori. Non è quindi possibile accertare con precisione filologica né il tenore letterale né il contenuto normativo esatto delle disposizioni originarie. Inoltre, l'impiego del termine dominium, da parte di Gaio, riflette una terminologia giuridica evoluta, propria dell'età classica, e non coerente con la struttura concettuale del diritto arcaico. In epoca delle XII Tavole (V secolo a.C.), infatti, la piena titolarità sui beni non era ancora espressa con il concetto tecnico di dominium, bensì mediante istituti formali quali la mancipatio e il mancipium, che esprimevano un rapporto giuridico fondato su atti solenni e riti simbolici, piuttosto che su una nozione astratta di proprietà soggettiva. Il passo va di conseguenza letto non come una trascrizione fedele della lex duodecim tabularum, ma come una elaborazione interpretativa del giurista classico, che traduce le categorie arcaiche attraverso il lessico e gli schemi concettuali della giurisprudenza successiva. In particolare, la corrispondenza tra il possesso prolungato (usus) e l'acquisto del dominium deve essere intesa come una reinterpretazione sistematica dell'usucapione alla luce del diritto romano classico, piuttosto che come una descrizione storicamente esatta della disciplina vigente al tempo delle XII Tavole.

L'evoluzione dottrinale nell'età classica

Con l'evolversi del sistema giuridico romano, soprattutto durante l'età classica (I sec. a.C.-III d.C.), gli istituti giuridici si fecero sempre più articolati e tecnicamente definiti. I giuristi romani operarono una distinzione chiara tra possessio, intesa come situazione di fatto consistente nel detenere una cosa come se fosse propria, e proprietas, ossia il diritto reale completo su di essa. Fu proprio in questa fase che si affermò l'idea che il possesso, protratto nel tempo e accompagnato da determinate condizioni soggettive, in particolare la buona fede (bona fides), potesse legittimare l'acquisto originario della proprietà. Nacque così l'usucapione, applicabile esclusivamente alle res corporales, cioè alle cose tangibili. Non fu l'unico strumento di acquisizione originaria del diritto di proprietà. Altri istituti simili includevano l'occupatio, che permetteva di diventare proprietario di una res nullius, l'accessio, che riguardava il caso in cui un bene secondario veniva permanentemente unito a uno principale, diventandone parte integrante, la specificatio, che indicava la trasformazione di materiali altrui in nuovi beni, il fructus, che consentiva al possessore in buona fede di acquisire legalmente i frutti naturali o civili derivanti da una cosa, purché li raccogliesse prima che il vero proprietario avanzasse pretese e il thesaurus: un tesoro ritrovato su un fondo apparteneva inizialmente al proprietario del terreno, ma con Giustiniano si stabilì che, se scoperto su terreno altrui, la proprietà doveva essere divisa equamente tra proprietario e scopritore , purché entrambi agissero in buona fede.

Tornando all'usucapione, i tempi richiesti per l'acquisto della proprietà riflettevano quelli già sanciti in epoca repubblicana: un anno per i beni mobili, due anni per i beni immobili. Con l'età imperiale, tuttavia, l'istituto fu progressivamente disciplinato attraverso interventi legislativi e interpretazioni giurisprudenziali.

Un aspetto cruciale dell'istituto riguardava le esclusioni: non era possibile usucapire le res furtivae (cose rubate) né le res vi possessae (sottratte con violenza). Tale limitazione mirava a tutelare il legittimo proprietario da acquisizioni illegittime, garantendo che il possesso fosse non solo protratto nel tempo, ma anche legittimo e accompagnato da buona fede. [2]

Ulpiano e Paolo: il contributo dei giuristi romani all'assetto dell'usucapione

Tra i protagonisti della sistemazione dottrinale dell'usucapione nell'età classica spiccano due tra i più autorevoli giuristi romani: Domizio Ulpiano e Giulio Paolo, entrambi annoverati da Giustiniano tra i cinque grandi maestri del diritto privato romano. Le loro riflessioni, conservate nel Digesto — parte del Corpus Iuris Civilis compilato sotto l'imperatore Giustiniano nel VI secolo d.C. — rappresentano una fonte essenziale per comprendere la struttura e le condizioni dell'istituto. Secondo Ulpiano, il possesso protratto nel tempo non solo legittima il rapporto con la cosa, ma modifica anche la percezione soggettiva del possessore. Nel libro V del De officio proconsulis, citato nel Digesto (D. 40.9.13), scrive: "Longus usus idem habet ac domini iussio: nam qui per annum et diem fundum possedit, eum sibi esse credit." (Un uso prolungato equivale a un ordine del proprietario: infatti, chi ha posseduto un fondo per un anno e un giorno, crede che esso gli appartenga). Questo passo esprime chiaramente come, al termine del periodo previsto per l'usucapione, si instauri una sorta di legittimazione morale e sociale del possesso, quasi a suggerire l'idea di un trasferimento tacito o presunto della proprietà, come se il proprietario avesse volontariamente acconsentito alla perdita del bene

Anche Paolo fornisce un contributo fondamentale alla definizione dell'usucapione. Nelle sue opere, in particolare nel libro XVII dell'Ad Sabinum, egli chiarisce che l'acquisto per usucapione richiede il concorso di due elementi imprescindibili: l'animus, ovvero la volontà di comportarsi come proprietario, e il corpus, cioè il possesso effettivo e visibile della cosa. Paolo afferma: "Necesse est enim utrumque esse: corpus possessionis et animus utendi ut suum" (Infatti, devono esserci entrambi: il possesso fisico della cosa e l'intenzione di usarla come propria). [Digesto (41, 3, 2)]

L'elaborazione dottrinale di Ulpiano e Paolo ha rappresentato un tassello fondamentale nella costruzione dell'istituto dell'usucapione. Grazie al loro lavoro, raccolto e organizzato secoli dopo dall'imperatore Giustiniano I nel Corpus Iuris Civilis, ne è stata delineata una forma stabile e vincolante: da strumento informale di gestione patrimoniale nell'età arcaica a istituto giuridico pienamente definito, capace di riconoscere legalmente il possesso legittimo e protratto nel tempo.[3]

Testimonianze medievali: i Placiti cassinesi e l'usucapione nel IX secolo

L'usucapione, pur essendo un istituto originario del diritto romano classico, ha continuato a esercitare una certa influenza anche nell'età medievale, soprattutto in contesti territoriali dove la tradizione romanistica non era stata completamente soppiantata da quella longobarda o feudale. Tra le testimonianze più antiche e significative di tale sopravvivenza vi sono i cosiddetti Placiti cassinesi, conservati nell'Archivio della Badia di Montecassino (Pergamene Cassinesi), documenti redatti tra il 960 e il 963 d.C. in area campana (Capua, Sessa Aurunca e Teano), che registrano una serie di testimonianze giurate relative a una controversia sulla proprietà di alcuni fondi agricoli. La disputa vedeva contrapposti il monastero benedettino di Montecassino, danneggiato gravemente dalle incursioni saracene del 885, e il signore feudale Rodelgrimo d'Aquino. I terreni oggetto della lite erano stati occupati illegalmente da contadini legati al feudatario, ma i monaci sostenevano di averne posseduto pacificamente e ininterrottamente le terre per circa trent'anni, avanzando così una pretesa legittima alla proprietà.

In quattro diverse occasioni, i testimoni dichiararono, in lingua volgare, di conoscere la provenienza dei terreni e di attestare il possesso protratto da parte dei monaci. Queste testimonianze costituiscono i primi esempi noti di testi scritti in volgare italiano. Alcuni passaggi significativi includono:

"Sao ko kelle terre, per kelle fini ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti" Capua, marzo 960

"Sao cco kelle terre, per kelle fini que tebe monstrai, Perogoaldi foro, que ki contene, et trenta anni le possette" Sessa Aurunca, marzo 963

"Kella terra, per kelle fini que bobe mostrai, sancte Marie è, et trenta anni lo posset parte sancte Marie" Teano, luglio 963

"Sao cco kelle terre, per kelle fini que tebe mostrai, trenta anni le possette parte Sancte Marie" Teano, ottobre 963 [4]

Le formule ripetute ("sao... kelle terre", "trenta anni le possette") suggeriscono l'esistenza di uno schema linguistico standardizzato, quasi giuridico, adottato anche nella lingua parlata. L'uso di pronomi dimostrativi e verbi in prima persona ("tebe", "bobe") rende le testimonianze più dirette e personali, mentre il richiamo ai confini ("per kelle fini") indica una conoscenza precisa del territorio da parte dei testimoni.

A decidere la causa fu il funzionario locale Arechisi, uno dei pochi personaggi dell'epoca menzionati con nome nei documenti ufficiali. Non era un giudice nel senso moderno del termine, bensì un pubblico ufficiale operante nell'ambito dell'ordinamento longobardo dei Principati di Capua e Benevento. Questo tipo di organizzazione politica rientra in quello che gli storici definiscono il "contesto post-unitario longobardo", ovvero il periodo successivo alla caduta del Regno longobardo unitario (774 d.C.), durante il quale i territori una volta dominati dai Longobardi furono frammentati in piccoli principati autonomi, come quelli di Benevento, Capua, Spoleto e Salerno. Pur sotto influenza franca o bizantina, questi centri mantenevano una certa indipendenza amministrativa e culturale, e facevano riferimento a un sistema normativo misto, basato su consuetudini locali, diritto longobardo e talvolta principi derivati dal diritto romano.

Le testimonianze, pur nella loro brevità, rivelano una diffusa consapevolezza del valore probatorio del possesso protratto, elemento decisivo nell'attribuzione della proprietà. Benché il sistema normativo fosse prevalentemente consuetudinario, spesso integrato da principi derivati dal diritto romano o canonico, l'applicazione di criteri simili a quelli dell'usucapione appare evidente. Da un punto di vista linguistico, la registrazione delle deposizioni in volgare testimonia l'esigenza di garantire la comprensibilità del contenuto a tutti gli interessati, mentre l'atto notarile veniva stilato in latino, lingua riservata agli addetti ai lavori, come i chierici. I Placiti cassinesi rappresentano quindi non solo un importante documento per la storia della lingua italiana, ma anche una preziosa testimonianza della sopravvivenza di principi giuridici romani nel contesto post-unitario longobardo, un ambiente politico ben attestato dalla storiografia medievale italiana

Dopo la caduta del regno unitario nel 774 d.C., nell'Italia meridionale emersero una serie di centri autonomi, tra cui i principati di Benevento, Capua, Spoleto e Salerno. Pur sotto influenza franca o bizantina, tali territori conservavano una certa indipendenza amministrativa e culturale, fondando il proprio sistema normativo su una mescolanza di consuetudini locali, diritto longobardo e talvolta principi derivati dal diritto romano. In questo contesto, l'applicazione di criteri simili a quelli dell'usucapione non desta sorpresa: esso costituiva infatti un mezzo di stabilizzazione sociale e patrimoniale, premiando chi esercitava un controllo effettivo e pacifico sul bene.[5]

L'evoluzione dell'usucapione nel diritto moderno

La rinascita del diritto romano nel XII secolo riportò l'usucapione al centro dell'attenzione giuridica. I glossatori bolognesi, attraverso lo studio delle Institutiones e del Digesto, contribuirono alla sistematizzazione del concetto di possessio utilis et bonae fidei, condizioni necessarie per l'acquisto della proprietà a titolo originario. In seguito, i commentatori, tra cui spicca Bartolo da Sassoferrato, ne approfondirono la natura come modus adquirendi dominii, distinguendola con maggiore precisione dalla prescrizione. Lo studio sistematico del Corpus Iuris Civilis diede vita al cosiddetto ius commune, un sistema giuridico comune all'Europa occidentale nel quale l'usucapione mantenne un ruolo centrale. Non costituì un ordinamento statale in senso moderno, ma una tradizione dottrinale e interpretativa condivisa tra le università e i tribunali europei, basata sull'eredità del diritto romano classico e sulle elaborazioni successive dei giuristi medievali e rinascimentali. Fu uno strumento essenziale per interpretare, completare e talvolta correggere le normative locali, spesso frammentarie o insufficienti rispetto alle nuove esigenze sociali ed economiche. L'istituto dell'usucapione, in particolare, fu recepito nei vari ordinamenti nazionali successivi, adattandosi alle mutate condizioni storiche, pur mantenendo inalterati i suoi presupposti strutturali e funzionali. La decisione di tornare al diritto romano non fu casuale: nell'Italia centrale del XII secolo, le città-stato stavano vivendo una rapida crescita economica e sociale, che richiedeva norme chiare, razionali e applicabili a contesti sempre più articolati. Il diritto consuetudinario locale si rivelava inadeguato a disciplinare rapporti commerciali, immobiliari e patrimoniali sempre più complessi. Il Corpus Iuris Civilis, con la sua struttura logica e il suo linguaggio preciso, offrì una soluzione efficace. Inoltre, la nascita delle prime università, soprattutto quella di Bologna, favorì la diffusione dello studio sistematico del diritto, rendendolo uno strumento essenziale per funzionari, notai e giudici.[6]

Conclusioni

L'usucapione si colloca idealmente all'incrocio tra diritto e realtà sociale: legittima il possesso protratto nel tempo, premiando l'utilizzo effettivo del bene e stabilizzando le relazioni giuridiche su di esso fondate. Nonostante l'evoluzione normativa avvenuta nei secoli, il nucleo originario dell'istituto è rimasto sostanzialmente invariato, testimonianza della sua persistente rilevanza nel panorama giuridico contemporaneo. La sua applicazione affonda le radici in una tradizione millenaria, che parte dall'antico diritto romano, dalle XII Tavole all'insegnamento dei grandi giuristi classici, e si conserva, in forme diverse, in molti ordinamenti europei e internazionali. Dai Placiti cassinesi ai giorni nostri, essa si conferma un ponte tra passato e presente, simbolo della capacità del sistema giuridico di adattarsi al mutare delle società, senza mai smarrire i valori fondamentali della certezza, della giustizia e della stabilità dei rapporti patrimoniali.


Dott.ssa Luisa Claudia Tessore

Note bibliografiche

[1] Ballarino T. (2007) Manuale breve di diritto internazionale privato. CEDAM

[2] Johnston, D. (2014) Roman Law in Context (2nd ed.). Cambridge University Press

[3] Metzger, E. (2000) A New Outline of the Roman Law of Usucaption. Zeitschrift der Savigny-Stiftung, 117(1), 188-209

[4] Placitus Cassinensis, Actus in Volgari, Archivum Abbatiae Montis Cassini, perg. a. 960-963; riediti in: Giorgio Alessio (a cura di) (1972) I primi testi italiani: i placiti cassinesi. Paravia, Torino

[5] Ledgeway, A. (2012) I Placiti cassinesi: Punti di incontro tra teoria e dati.

[6] https://www.treccani.it/enciclopedia/lo-ius-civile-glossatori-e-commentatori_(Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:-Diritto)/


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