La misura degli onorari dovuti dal cliente al proprio avvocato prescinde da quanto statuito dal Giudice nella sentenza che condanna la controparte al pagamento delle spese legali

Spese legali e compenso professionale pattuito

Nel caso esaminato, l'avvocato, protagonista della vicenda, aveva svolto la propria attività professionale in favore di una procedura fallimentare, in ragione della quale aveva domandato la liquidazione dei propri compensi nella misura giudizialmente definita, poi liquidata dal giudice aveva come da proposta del curatore.

Successivamente, il Tribunale di Brescia si era pronunciato in ordine alle decisioni assunte dalla curatela fallimentare, ritenendo, per quanto qui interessa, che rispetto all'entità degli onorari professionali si fosse formato il giudicato con riguardo ai due gradi di giudizio del merito e che quindi tale elemento non fosse più soggetto a successive modifiche, con la conseguenza che il difensore non avrebbe potuto avanzare ulteriori pretese in termini di compenso allo stesso spettante.

Avverso tale decisione, l'avvocato proponeva ricorso straordinario dinanzi la Corte di Cassazione, contestando, tra i vari motivi d'impugnazione, la circostanza che, sull'entità del suo onorario, si fosse formato il giudicato in sede di liquidazione delle spese processuali.

Compensi avvocato e contratto di prestazione d'opera

La Suprema Corte con ordinanza n. 32558/2023 (sotto allegata), ha affermato, in primo luogo, che "in linea di principio, il provvedimento di liquidazione del compenso al difensore che abbia assistito in una causa la curatela fallimentare, adottato dal giudice delegato ai sensi dell'art. 25, n. 7) l. fall. con un provvedimento di natura giurisdizionale, e non già meramente ricognitiva (Cass. 8742/2016), risponde ad esigenze specifiche della procedura ed è perciò autonomo rispetto alla statuizione sulle spese adottata dal giudice di quella causa, ai sensi dell'art. 91 c.p.c.".

Sulla base di tale assunto, la Corte ha poi spiegato che risponde ad un principio consolidato il fatto che "la misura degli onorari dovuti dal cliente al proprio avvocato prescinde dalle statuizioni del giudice contenute nella sentenza che condanna la controparte alle spese e agli onorari di causa, in quanto deve essere determinata in base a criteri differenti da quelli che regolano la liquidazione delle spese fra le parti".

Quanto sopra riferito, prosegue la Corte, dipende dal fatto che, per il cliente, l'obbligo di pagare gli onorari trova fondamento nel contratto di prestazione d'opera, mentre, per la parte soccombente, tale obbligo risiede nel principio di causalità rispetto agli esiti del giudizio. Se è dunque vero che il cliente è comunque obbligato a corrispondere gli onorari all'avvocato da lui nominato, è pur vero che la determinazione del relativo ammontare non deve (necessariamente) conformarsi alla pronuncia giudiziale in ordine alle spese relative alla causa cui il compenso è riferito.

Tale principio, afferma la Corte "vale anche dopo il passaggio dal sistema tariffario a quello dei parametri, con l'entrata in vigore della I. n. 247 del 2012, il cui art. 13, qualora il compenso sia liquidato dal giudice per mancata pattuizione per iscritto tra cliente e avvocato, ne ragguaglia la determinazione non già al principio di causalità, che governa le statuizioni sulle spese contenute nel provvedimento definitorio del giudizio, bensì ai parametri allegati al D.M. n. 55 del 2014".

Nei termini anzidetti, quindi, il passaggio in giudicato delle statuizioni sulle spese processuali ha l'effetto di rendere indiscutibile solo la "determinazione del valore della causa trattata".

Nel caso in esame, le spese processuali sono state liquidate in misura superiore rispetto a quanto indicato dal giudice delegato, con la conseguenza che il professionista era legittimato ad invocare la decisione come titolo per ottenere la maggior somma che gli competeva per l'opera prestata.

La Suprema Corte ha dunque ritenuto che la maggiore somma dovuta all'avvocato a titolo di onorario dovesse essere liquidata in quanto, essendo la prestazione effettivamente acquisita alla massa fallimentare, la sua mancata liquidazione determinerebbe una ingiusta locupletazione del fallimento. In questo senso, il difensore poteva avanzare tale richiesta in sede di reclamo contro il decreto di liquidazione ex articolo 26 legge fallimentare, facendo valere la differenza tra l'eventuale ingiustificato arricchimento della massa fallimentare.

Sulla scorta di quanto sopra riferito, la Cassazione ha accolto il ricorso proposto dal professionista.

Scarica pdf Cass. n. 32558/2023

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