Ci può essere imparzialità in assenza di terzietà? Il caso analizzato dal Tar Lazio di un sottufficiale della Guardia di Finanza espulso con l'accusa di aver fumato marijuana

Detenzione di canapa indiana: la vicenda

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Lino (nome di fantasia) è un sottufficiale con oltre trent'anni di servizio nel Corpo della Guardia di Finanza, nel corso dei quali il suo comportamento è stato impeccabile. Ha ottenuto numerosi riconoscimenti di ordine morale (un encomio solenne, sette encomi semplici e nove elogi), nonché una pubblica benemerenza per aver prestato soccorso in occasione del tragico sisma dell'Aquila. Inoltre, in occasione dei giudizi annuali caratteristici è stato valutato "Eccellente con lode" senza flessioni sin dal 2003.

Negli ultimi ventisette anni, da quando ha conseguito il Brevetto di Specialista di Elicotteri, Lino ha prestato servizio come meccanico di elicotteri militari.

Nella caserma in cui ha lavorato fino al giorno in cui è stato degradato ed espulso dal Corpo era detenuta, in attesa di essere distrutta, circa una tonnellata di sostanza stupefacente, frutto di un sequestro di polizia. Le piante di canapa indiana erano conservate in un deposito in lamiera (non a chiusura ermetica), attiguo all'hangar dove Lino prestava servizio, e coperte solo da un telo "ombreggiante", senza essere raccolte in sacchi sigillati; pertanto generavano un forte odore che veniva inalato da quanti, come Lino, stazionavano nelle vicinanze del manufatto. Per di più, pare che la parte del tetto del box lamierato che poggiava all'hangar fosse sollevata in più punti con scambio d'aria "continuo" tra i due ambienti.

Le piante sono state conservate in tali condizioni dal 23 agosto 2017 al 27 giugno 2018, quando sono state distrutte.

Lino, nell'ambito dei controlli sanitari annuali previsti per l'accertamento dell'idoneità al volo, in data 08 giugno 2018, è risultato positivo ai "cannabinoidi" per una quantità di soli 66 ng/ml (laddove il limite massimo è fissato in 50 ng/ml).

In relazione all'accertata positività alla sostanza stupefacente, l'amministrazione militare ha aperto nei confronti di Lino un'inchiesta disciplinare di stato che potrebbe concludersi con il licenziamento.

La Commissione di disciplina, però, non se la sente di infliggere al militare una condanna, al di là di ogni ragionevole dubbio; infatti, lo ha giudicato meritevole di conservare il grado e, soprattutto, il posto di lavoro. Fondamentali sono state le perizie prodotte da Lino, secondo le quali l'azione scaldante del sole, esercitata sulla superficie metallica delle pareti e del tetto del locale nel quale era conservata la sostanza stupefacente, ha determinato un netto aumento della temperatura interna, facilitando la liberazione e diffusione, nell'ambiente limitrofo, di ampie quantità di principio attivo THC, la cui inalazione ha potuto determinare l'involontaria positività del militare alla sostanza stupefacente.

In un mondo ideale, la disavventura di Lino avrebbe dovuto concludersi qui.

Purtroppo, essa è solo agli inizi.

La commissione di disciplina

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L'amministrazione militare a questo punto nomina una seconda Commissione di disciplina, la quale ribalta il giudizio della prima e infligge al militare la sanzione di stato della perdita del grado per rimozione con l'iscrizione d'ufficio nel ruolo dei militari di truppa dell'Esercito, senza alcun grado.

Tradotto dal burocratese, significa ritrovarsi dall'oggi al domani senza stipendio (era monoreddito), quindi sul lastrico. E per giunta con due figli a carico.

A giudizio della seconda commissione, Lino "con il suo agire [avrebbe] arrecato gravissimo nocumento all'immagine e al prestigio del Corpo dinanzi ad Autorità esterne alla propria Istituzione (Nucleo Operativo Tossicodipendenze di Roma e Questura di Roma) investite dalla deprecabile vicenda di cui si è reso responsabile un appartenente alla Guardia di Finanza".

Al militare non rimane altra strada che appellarsi al TAR Lazio, che accoglie il ricorso e ne stabilisce la reintegrazione nel Corpo della Guardia di Finanza. I giudici del TAR mettono nero si bianco che "La mancanza di prova certa in ordine alla volontaria assunzione di sostanza stupefacente, da parte dell'incolpato, palesa l'illegittimità della sanzione anche in relazione al profilo della "contiguità con soggetti che operano nell'illegalità" contestata al [militare] nel corso del procedimento disciplinare.

Tale condotta, infatti, è stata addebitata al ricorrente esclusivamente quale deduzione logica tratta dall'accertata volontaria consumazione di sostanza stupefacente.

Ne consegue che, non essendo stata accertata con certezza l'assunzione volontaria di sostanza, viene meno anche la conseguenza (ovvero la contiguità con ambienti criminali) che l'amministrazione ha desunto da tale condotta" (TAR Lazio, n. 1268/2020).

Purtroppo, nemmeno i giudici del TAR riescono a mettere la parola fine alle disavventure di Lino. Infatti, l'amministrazione militare presenta ricorso in appello al Consiglio di Stato e, nelle more del procedimento, non dà esecuzione alla sentenza.

Di conseguenza, Lino nonostante il giudizio favorevole della prima commissione di disciplina e la sentenza favorevole del TAR, a tutt'oggi è senza lavoro e senza stipendio.

Alcune osservazioni in merito all'art. 1389, comma 1, lettera b) del D.Lgs. n. 66/2010.

La norma di cui si è avvalsa l'amministrazione per nominare la seconda commissione, che ha ribaltato il precedente giudizio favorevole, è l'art. 1389, comma 1, lettera b) del D.Lgs. n. 66/2010, che così recita: "Il Ministro della difesa se ritiene, per gravi ragioni di opportunità, che deve essere inflitta la sanzione della perdita del grado per rimozione ovvero la cessazione dalla ferma o dalla rafferma, ordina, per una sola volta, la convocazione di una diversa commissione di disciplina, ai sensi dell'articolo 1387".

La disposizione trova applicazione nell'ipotesi in cui vi sia una divergente valutazione tra valutazione della commissione e valutazione del Ministro; e quest'ultimo intenda discostarsi dalle conclusioni raggiunte dalla Commissione di disciplina. Nel caso in esame, però, la decisione di nominare la seconda commissione non è stata assunta dall'autorità politica (il Ministro), ma dall'autorità militare (il Comandante Interregionale).

La podestà decisionale infatti, attraverso una sub-sub-delega (dal Ministro al Comandante Generale e da quest'ultimo al Comandante Interregionale) è transitata dall'autorità politica a quella militare.

Tale circostanza non pare un dettaglio del tutto ininfluente.

Il ricorso al Tar

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Bene, dunque, ha fatto la difesa di Lino a prospettare nel ricorso al TAR il vizio d'incompetenza funzionale dell'autorità delegata alla decisione (la seconda commissione di disciplina).

Non si può dire altrettanto rispetto alla scelta dei giudici del TAR di ritenere infondato il vizio prospettato.

Infatti, la terzietà e l'imparzialità dovrebbero essere i connotati di qualsiasi autorità delegata ad esprimere un giudizio potenzialmente lesivo di un diritto tutelato dalla Costituzionale, quale il diritto al lavoro.

Rispetto al primo requisito, corre l'obbligo precisare che i membri di una commissione di disciplina spesso dipendono -per quanto riguarda note caratteristiche, trasferimenti, avanzamenti e sanzioni disciplinari- dalla medesima catena di comando. Si ritiene, pertanto, che una commissione di disciplina non possa dirsi terza rispetto all'amministrazione. Il legame dei militari, compresi i membri delle commissioni, con l'amministrazione di appartenenza è rafforzato da una malintesa specificità che non permette all'ordinamento militare di informarsi allo spirito democratico della Repubblica.

Per quanto concerne l'imparzialità, invece, è giusto il caso di precisare che vi è in ambito militare una prassi consolidata secondo la quale l'errore commesso da un militare in attività di servizio, che provochi un danno d'immagine all'amministrazione, può essere motivo di valutazione in peius dell'azione di comando dell'intera linea gerarchica. In altre parole, la soccombenza in giudizio dell'amministrazione, specie se seguita dalla condanna alle spese, oltre a pesare direttamente sulla carriera del militare che ha sbagliato, può compromettere anche quella dei suoi superiori (i cui giudizi annuali potrebbero subire una flessione a seguito dell'abbassamento delle seguenti voci caratteristiche: "capacità di giudizio" e "capacità di giudicare i dipendenti").

Questa circostanza concorre a creare un cointeresse all'interno della catena di comando in occasione di eventuali procedimenti il cui esito potrebbe provocare imbarazzo all'amministrazione, ovvero ledere la sua immagine ed il suo prestigio.

Ci si augura che non siano queste "le gravi ragioni di opportunità" che hanno determinato la convocazione di una seconda commissione di disciplina.

Se così fosse, lo spirito della norma risulterebbe completamente stravolto.

Giunti a questo punto della trattazione, è necessario porsi alcuni quesiti.

Alcuni quesiti

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- Qual è - o forse è il caso di dire, quale era - lo spirito originario dell'art. 1389, comma 1, lettera b) del D.Lgs. n. 66/2010?

- La sua presenza è in armonia con i principi alla base del nostro ordinamento giuridico?

"L'ordinamento delle Forze armate non ha sempre avuto le caratteristiche secondo le quali, oggi, siamo portati a pensarlo. Per la verità, originariamente, esso non aveva una propria ed autonoma connotazione risultando parte integrante di un più ampio sistema, all'interno del quale trovava una propria collocazione anche il concetto di giustizia militare. La separazione tra i due ambiti è avvenuta solo in tempi relativamente recenti. Inizialmente, all'interno del consorzio militare non esisteva alcuna distinzione tra l'esercizio dell'azione penale e quello dell'azione disciplinare. Questa confusione aveva una sua giustificazione storica nella convinzione che la figura del comandante assommasse in sé, oltre ai poteri del superiore, anche quelli tipici del giudice"[1].

Il comandante, dunque, infliggeva sia le sanzioni penali che quelle disciplinari.

Ebbene, in quel periodo storico la vigenza dell'art. 1389 (solo riordinato nel D.Lgs. n. 66/2010) aveva certamente un senso, poichè la facoltà di nominare una seconda commissione aveva lo scopo di favorire eventuali militari condannati a sanzioni penali più gravi della perdita del grado. Dunque, la prerogativa ab origine era espressione del principio del favor rei; cioè, la sua ratio era quella di valutare, con il secondo giudizio, se ci fossero i presupposti per infliggere al reo una sanzione più lieve rispetto a quella già inflittagli dalla prima commissione di disciplina. E non per infliggerne una più pesante!

Ciò è tanto più vero, se solo si considera che opportunità, dal latino opportun?tas, è sinonimo di vantaggio, convenienza.

E per chi? Se non per il reo?

Del resto, sfavorendo il reo si finirebbe per "avvantaggiare" altri interessi estranei allo spirito originario della norma.

Dunque, la permanenza della lettera b) dell'art. 1389, all'indomani della separazione dell'azione penale da quella disciplinare, ha di fatto introdotto nell'ordinamento militare un principio giuridico nuovo: il principio del "favor administrationis", che consente di ribaltare eventuali giudizi se ritenuti dannosi per gli interessi dell'amministrazione.

Inoltre, tenuto conto della contiguità intercorrente tra le norme disciplinari e quelle penali (militari), di cui l'art. 260 c.p.m.p rappresenta la massima espressione, l'art. 1389 del codice militare spezza tale contiguità e coerenza per le ragioni che seguono.

E' noto che nell'ordinamento penale le ragioni di "opportunità" si traducono in vere e proprie «cause di non punibilità», anziché in motivi di sanzione, come nella disposizione in analisi[2].

Al fine di chiarire il concetto appena esposto, si pensi all'art. 649 c.p che, a determinate condizioni esclude la punibilità di alcuni fatti a danno di congiunti, oppure all'art. 131 bis c.p., con cui viene esclusa la punibilità per "particolare tenuità del fatto".

Per di più, si ritiene che il suddetto favor administrationis non sia in armonia con il principio di rieducazione della pena ex art. 27 c. 3 Cost. che, secondo la giurisprudenza amministrativa, è "indirettamente" operante anche in materia di sanzioni disciplinari[3].

Sotto altro profilo, è di tutta evidenza che non è possibile muovere alcun rimprovero ad un soggetto per ragioni di opportunità che, per definizione sfuggono dal giudizio inerente il proprio comportamento sia in tema di volontà (condotta dolosa), che in termini di prevedibilità (condotta colposa), perché non controllabili e definibili a priori dal suddetto individuo.

Il "forum shopping disciplinare"

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Ulteriore conseguenza del predetto art. 1389 è l'emersione di un vero e proprio "forum shopping disciplinare".

Preliminarmente, occorre osservare che in diritto internazionale privato per "forum shopping" "Si intende la possibilità accordata alle parti di una controversia giudiziaria di affidarla alla cognizione del giudice di uno Stato piuttosto che a quello di un altro. L'espressione viene anche utilizzata per stigmatizzare l'abuso di tale possibilità di scelta, quando cioè colui che intenta l'azione giudiziaria sceglie il foro che ritiene possa applicare la legge a lui più favorevole[4]".

In altre parole, se è vero che l'illecito disciplinare è teleologicamente contiguo all'illecito penale, è altrettanto vero che il predetto forum shopping non è in armonia con l'art. 25 della Costituzione, perché distoglie l'incolpato dal "giudice disciplinare" precostituito per Legge.

Peraltro, sembra che tale prassi si stia consolidando[5].

Dall'azione giustiziale all'azione di comando.

Come affermato in precedenza, vi è una particolare attenzione da parte delle Amministrazioni Militari alla tutela dell'immagine, spesso a scapito di altri interessi.

Infatti, stiamo assistendo al passaggio da una concezione della disciplina militare «tendente a ripristinare l' "ordine turbato dall'illecito"», ad una «finalizzata al raggiungimento di determinati obiettivi»[6].

In altre parole, l'ordinamento militare è un ordinamento interno all'ordinamento statale, ma periodicamente reclama la propria "autonomia[7]" dallo stesso[8], come testimoniato dalle norme contenute nel Codice Penale Militare di Guerra.

In tempo di pace, questa "esigenza" di autonomia sta riemergendo, e si manifesta in vari istituti tra cui quello del ricorso gerarchico in materia di sanzioni disciplinari di corpo quale condizione di procedibilità per il ricorso giurisdizionale[9].

Tale mal declinata "specificità" può essere compendiata con la seguente espressione latina: in dubio pro administratione, con buona pace delle tutele individuali del "lavoratore con le stellette", parte debole dal punto di vista socio-economico (e contrattuale).

Si auspica, in conclusione, che il predetto art. 1389 sia espunto dal Codice dell'ordinamento militare, poiché la sua sopravvivenza, all'indomani della separazione dell'azione penale da quella disciplinare, sembrerebbe in contrasto con il principio di rieducazione della pena, con il principio di precostituzione del Giudice naturale, con il principio di imparzialità dei pubblici uffici, giungendo sino a pregiudicare irreversibilmente il diritto al lavoro del militare.

Post scriptum

La brutta aria che si respira nelle caserme non è quella che ha respirato Lino. Forse quella è stata solamente aria inquinata, che gli ha provocato una momentanea intossicazione. Ad ogni modo, saranno i giudici del Consiglio di Stato a stabilirlo ed a mettere la parola fine alla sua vicenda.

La brutta aria è quella stantia di un "ordinamento" chiuso, che non vuole proprio aprirsi al fresco profumo di democrazia; di un ordinamento nel quale la regola dell'onore pretende di continuare ad occupare (abusivamente) quegli spazi che i Padri Costituenti già settant'anni fa destinarono al principio di legalità[10]. Di un ordinamento che non vuole proprio rassegnarsi al fatto che non potrà mai esserci imparzialità in assenza di terzietà.

Cleto Iafrate

Dirigente SIBAS-Finanzieri

Leggi gli altri contributi dello stesso autore su StudioCataldi.it e su Ficiesse.it

[1] C. Iafrate - B. Forte, Il Cittadino Militare. Principi costituzionali e ordinamento militare, p. 15.

[2] Cfr. con T. Padovani, Diritto Penale, XI edizione, Giuffrè editore, 2017, Milano, p. 407: "La categoria dogmatica della non punibilità è assai controversa. In linea di principio, esse sono costituite da situazioni in presenza delle quali la legge stima inopportuna l'applicazione della pena […] ad un reato peraltro integrato in tutti i suoi elementi costitutivi".

[3] Cfr. con Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza n. 25/2011, ove la massima sanzione espulsiva è stata ritenuta contraria ai principi di ragionevolezza e proporzionalità in presenza di un comportamento isolato, da cui è scaturita un'archiviazione in sede penale; per un commento della vicenda, cfr. con C. Iafrate, "Il principio di proporzionalità nelle sanzioni disciplinari. Il caso di un finanziere accusato del furto compiuto dalla moglie", in www.ficiesse.it.

[4] https://www.laleggepertutti.it/dizionario-giuridico/forum-shopping

[5] Cfr. con C. Iafrate, "L'art. 25 Cost. della Costituzione vale anche per i cittadini-militari? Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge, forse". Nota a Tar Brescia, sentenza n. 988 del 2019, in www.studiocataldi.it, ove si è trattato il caso di un militare che è stato sanzionato con la sospensione disciplinare dall'impiego, considerando come "giudicato penale" una sentenza di condanna di Corte D'Appello annullata in Cassazione per "incompetenza territoriale"

[6] Cfr. con R. Giovanelli, L'elasticità dell'autonomo procedimento disciplinare di stato. Nota a Tar Latina, Sezione I, sentenza n. 757 del 31 dicembre 2019, in www.ildirittoamministrativo.it; E. Boursier Niutta, Esposito, Elementi di diritto disciplinare militare - disciplina di corpo, terza edizione, Laurus Robuffo, Roma, 2004, pp. 112-113

[7] Con il termine autonomia (dal greco antico ?????????; ?????????, autònomos, parola composta da ????-, auto - e ?????, nomos, "legge", ovvero "legge propria") si intende la possibilità per un soggetto di svolgere le proprie funzioni senza ingerenze o condizionamenti da parte di terzi.

[8] Cfr. con E. Boursier Niutta, Esposito, op.cit., p. 24: "Con lo svilupparsi dello Stato di diritto le forze armate della nazione fecero ingresso nella struttura organizzativa dello Stato, tuttavia ad esse era riservata una notevole autonomia che, di fatto, dava luogo a vaste deroghe ai principi di legalità, in forza di una c.d. "supremazia speciale" che cedette solo con ritardo al processo di costituzionalizzazione".

[9] Cfr. con C. Iafrate, Il ricorso contro le sanzioni militari alla luce dell'ordinamento canonico. La giurisdizione condizionata (dall'immagine) dei "sacrati" e dei consacrati, in www.studiocataldi.it; S. Setti, "La giurisdizione condizionata amministrativa in materia militare ...", in Rassegna bimestrale di giustizia militare, ed. Ministero Difesa; R. Giovanelli, Il ricorso gerarchico in materia di sanzioni disciplinari militari condiziona la giurisdizione. Nota a Consiglio di Stato, Nota a Consiglio di Stato, Sezione Quarta, n. 880 del 12 febbraio 2018, in www.ildirittoamministrativo.it.

[10] Cfr. con C. Iafrate, Quella malintesa specificità militare; e ancora, Il cammino dei diritti e delle libertà dei militari è fermo all'anno 1788, in www.studiocataldi.it

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