Per la Corte Costituzionale è illegittimo e contrario al senso di umanità della pena il divieto per i detenuti sottoposti al regime 41-bis di cucinare cibi in carcere

di Lucia Izzo - L'art. 41-bis della legge 354/1975 è costituzionalmente illegittimo nella parte in cui impedisce ai detenuti soggetti a tale regime di cucinare i cibi di cui gli è consentito l'acquisto.


Lo ha stabilito la Corte Costituzionale con la sentenza n. 186/2018 (qui sotto allegata) facendo venir meno il divieto per i detenuti condannati al 41-bis di cucinare in carcere, ritenendo tale limitazione, non contemplata per i detenuti "ordinari", contraria al senso di umanità della pena.

Il caso

Ad adire la Consulta era stato il Magistrato di sorveglianza di Spoleto che, a sua volta, era stato investito dal reclamo proposta da un detenuto sottoposto al regime ex art. 41-bis ord. pen. contro il divieto, impostogli dall'amministrazione penitenziaria, di acquistare cibi che richiedono cottura, nonché di cucinare in carcere quelli di cui gli è consentito l'acquisto, pena una sanzione disciplinare.


Tale divieto, secondo il reclamante, avrebbe pregiudicato in maniera grave e perdurante il proprio diritto a subire una pena non disumana ai sensi dell'art. 27 Cost., da scontare in condizioni di parità di trattamento, ai sensi dell'art. 3 Cost., rispetto alle altre persone detenute presso il medesimo istituto penitenziario.

Secondo il giudice rimettente si tratta di questioni non manifestamente infondate. In particolare, secondo il Magistrato, il divieto relativo alla cottura del cibo non apporterebbe alcun concreto contributo alla fondamentale necessità di inibire pericolosi contatti criminali del detenuto con l'esterno né di limitarne l'esibizione di potere e carisma all'interno, a fronte dei vincoli di spesa comunque imposti a tutti i ristretti.

Cottura dei cibi e regime 41-bis: divieto ingiustificato

La Corte Costituzionale, accogliendo il ricorso, ritiene che la disposizione censurata violi sia gli artt. 3 che 27 della Costituzione. La giurisprudenza della Corte, infatti, ha da tempo chiarito che il regime differenziato previsto dall'art. 41-bis, comma 2, ord. penit. mira a contenere la pericolosità di singoli detenuti, proiettata anche all'esterno del carcere, in particolare impedendo i collegamenti dei detenuti appartenenti alle organizzazioni criminali tra loro e con i membri di queste che si trovino in libertà.

In sostanza, attraverso l'applicazione del 41-bis si intende soprattutto evitare che gli esponenti dell'organizzazione in stato di detenzione, sfruttando il regime penitenziario normale, possano continuare a impartire direttive agli affiliati in stato di libertà, e così mantenere, anche dall'interno del carcere, il controllo sulle attività delittuose dell'organizzazione stessa.

Alla luce degli obbiettivi cui tendono le misure restrittive autorizzate dalla disposizione in questione, le limitazioni in materia di cottura dei cibi, secondo la Consulta, appaiono incongrue e inutili, configurandosi come un'ingiustificata deroga all'ordinario regime carcerario, dotato di valenza meramente e ulteriormente afflittiva.

In primo luogo, sottolinea la Consulta, anche i detenuti in regime differenziato possono svolgere (limitati) acquisti di generi alimentari al sopravvitto e, dunque, non è certo il divieto di cottura dei cibi a risultare congruo e funzionale all'obbiettivo di recidere i possibili contatti con l'esterno che tali acquisti potrebbero comportare.

Inoltre, i detenuti in regime differenziato, come pure si è visto, dispongono comunque del fornello personale, anche se possono allo stato utilizzarlo, a differenza degli altri, solo per riscaldare liquidi e cibi già cotti, oppure per preparare bevande.

E poiché le esigenze di sicurezza personale dei detenuti trovano protezione in varie altre regole del complessivo regime carcerario, per la Corte il divieto di cottura dei cibi non è ovviamente idoneo a aggiungere nulla alla pur indispensabile opera di prevenzione degli utilizzi impropri di tale strumento, che risultino pericolosi per il detenuto stesso o per gli altri.

Tanto suddetto, risulta che il divieto di cottura dei cibi, in quanto previsto in via generale e astratta in riferimento ai detenuti soggetti al regime carcerario di cui all'art. 41-bis ordin. penit., è privo di ragionevole giustificazione.

Consulta: i detenuti al 41-bis possono cucinare in carcere

La Corte Costituzionale condivide quanto stabilito dal giudice rimettente secondo cui il potersi esercitare nella cottura dei cibi, secondo le ritualità cui si era abituati prima del carcere, costituirebbe una modalità, "umile e dignitosa", per tenersi in contatto con le usanze del mondo esterno e con il ritmo dei giorni e delle stagioni, nel fluire di un tempo della detenzione che trascorre altrimenti in un'aspra solitudine.

Neppure sbaglia il rimettente, secondo la Consulta, a ritenere che, al contrario, la negazione dell'accesso a questa abitudine finisca per configurarsi come una lesione all'art. 27, terzo comma, Cost., presentandosi come un'inutile e ulteriore limitazione, contraria al senso di umanità.

In definitiva, non si tratta di affermare, né per i detenuti comuni, né per quelli assegnati al regime differenziato, l'esistenza di un "diritto fondamentale a cuocere i cibi nella propria cella".

Si tratta piuttosto di riconoscere che anche chi si trova ristretto secondo le modalità dell'art. 41-bis ordin. penit. deve conservare la possibilità di accedere a piccoli gesti di normalità quotidiana, tanto più preziosi in quanto costituenti gli ultimi residui in cui può espandersi la sua libertà individuale (analogamente, sentenze n. 122 e n. 20 del 2017, n. 349 del 1993).

Pertanto, conclude la Corte Costituzionale, va dichiarato costituzionalmente illegittimo, limitatamente alle parole "e cuocere cibi", l'art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge 354/1975 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà).

Corte Costiruzionale sent. 186/2018

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