La dialettica processuale "aspra" tra avvocati non integra il reato di diffamazione. Per la Cassazione infatti non ogni frase che si risolve in un giudizio critico, aspro e al più scortese tra colleghi costituisce un'offesa

di Lucia Izzo - Non scatta la diffamazione se nella dialettica processuale tra due avvocati uno, nella comparsa conclusionale, utilizza una frase che si risolve in un giudizio critico, aspro e al più scortese nei confronti dell'altro. Infatti, non ogni espressione che crea disappunto è per ciò solo offensiva, né offensiva è automaticamente una espressione sgradevole o pungente.


Lo ha precisato la Corte di Cassazione, quinta sezione penale, nella sentenza n. 28558/2018 (qui sotto allegata) pronunciandosi sul ricorso di "per saltum" di un avvocato condannato dal Giudice di Pace di Pavia alla sola pena pecuniaria e al risarcimento del danno per il reato di diffamazione commesso ai danni di un collega.


Nel dettaglio, all'imputato era stato contestato l'utilizzo, all'interno di una comparsa conclusionale, di una frase con cui lamentava di essere stato oggetto di una denigrazione ("la difesa dell'odierno appellato, con affermazioni denigratorie sulle quali la scrivente difesa, in questa sede, sorvola, vuole far credere...") che il collega, patrono della parte avversa nella causa in cui la comparsa è stata depositata, ha ritenuto offensiva della sua reputazione.


In Cassazione, l'imputato ritiene che la frase incriminata difetti di portata offensiva, non ledendo la reputazione del collega e non attribuendogli alcun fatto socialmente disdicevole. L'espressione, non riferendosi direttamente al collega, era stata utilizzata solo per esprimere un giudizio sul contenuto degli atti difensivi di parte avversa, inoltre, neppure il linguaggio utilizzato avrebbe leso l'onorabilità professionale del collega.

Diffamazione: la condotta tipica consiste nell'offesa della reputazione

La Corte rammenta come oggetto di tutela nel delitto di diffamazione sia l'onore in senso oggettivo o esterno e cioè la reputazione del soggetto passivo del reato, da intendersi come il senso della dignità personale in conformità all'opinione del gruppo sociale, secondo il particolare contesto storico.


La tipicità della condotta di diffamazione consiste nell'offesa della reputazione: è dunque necessario, nel caso della comunicazione scritta od orale, che i termini dispiegati o il concetto veicolato attraverso di essi siano oggettivamente idonei a ledere la reputazione del soggetto passivo.


In tal senso, nel caso di specie, è innanzi tutto da escludere che la terminologia utilizzata dall'imputato abbia prodotto una concreta lesione dell'interesse tutelato dalla norma, specie alla luce dell'evoluzione dei costumi sociali nel presente contesto storico, caratterizzato dalla tolleranza di un inasprimento della dialettica processuale.

Cassazione: non ogni espressione che crea disappunto è offensiva

Secondo la Corte, la sussistenza di un reato non può essere ancorata alla sensibilità della presunta persona offesa, mentre ciò che rileva, oltre al dolo generico dell'agente, è la obiettiva capacità offensiva delle espressioni utilizzate da giudicarsi in base al significato socialmente condiviso delle parole.


Dunque, non ogni espressione che crea disappunto è per ciò solo offensiva, né offensiva è automaticamente una espressione sgradevole o pungente.


Spesso, nel corso di un procedimento giudiziario, le parti utilizzano frasi e parole per screditare la tesi avversaria, che, in diverso contesto, difficilmente sarebbero tollerate: tuttavia, l'ordinamento ritiene ciò perfettamente fisiologico, essendosi in presenza di una contesa, aperta e radicale, tra soggetti aventi interessi contrastanti e che esprimono tesi contrapposte.


Nella fattispecie la frase contestata si esaurisce in un giudizio critico, aspro ed al più scortese, in merito alle osservazioni contenute nello scritto di controparte ed espresso attraverso una forma espositiva non sovrabbondante e priva di accenti oggettivamente indicativi della volontà di aggredire la persona del patrono di controparte, sulle cui qualità morali o intellettuali non viene espresso alcun effettivo giudizio e che avrebbero potuto concretare una offesa penalmente rilevante, peraltro eventualmente scriminata dall'art. 51 c.p. o non punibile in ragione dell'art. 598 c.p.


E neppure la sua divulgazione ha assunto implicazioni lesive dell'onorabilità professionale della parte offesa avuto riguardo al contesto processuale in cui la frase è stata spesa e si è inserita. In sostanza, nel caso in esame, le espressioni impiegate non posseggono, attesa pure la nota di relatività e variabilità storica dei parametri che vengono in rilievo, quella valenza denigratoria, screditante e inutilmente aggressiva che costituisce il necessario presupposto della tipicità del reato.


La sentenza va dunque annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste.

Cass., V pen., sent. n. 28558/2018

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