Per la Cassazione commette falso ideologico in atto pubblico il praticante avvocato che dichiara falsamente al COA di non avere carichi pendenti

di Lucia Izzo - Commette falso ideologico in atto pubblico l'aspirante avvocato che, nella domanda di iscrizione al registro dei praticanti, ai sensi e per gli effetti degli artt. 46 e 47 d.p.r. n. 445/2000, avanzata al Consiglio dell'Ordine affermi falsamente di non avere procedimenti penali pendenti.


Tale atto, infatti, ha valore di dichiarazione sostitutiva attestante stati e qualità personali quindi le dichiarazioni sottoscritte dall'interessato sono prodotte in sostituzione delle normali certificazioni rilasciate da un ente dotato di capacità certificativa (il casellario giudiziale, nella specie).


Conseguentemente, l'atto nel quale tali dichiarazioni sono trasfuse è destinato a provare la verità dei fatti attestati e a produrre specifici effetti (nel caso in esame, l'ammissione del ricorrente al registro dei praticanti). In caso di informazioni non veritiere, stante anche la natura di enti pubblici non economici attribuita a Ordini e Collegi nazionali professionali, scatta il reato di cui all'art. 483 del codice penale.


Tanto ha chiarito la Corte di Cassazione, quinta sezione penale, nella sentenza n. 21683/2018 (qui sotto allegata) pronunciandosi sul ricorso di un aspirante avvocato condannato per "Falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico".

La vicenda

Nel dettaglio, tale reato era stato compiuto attraverso dichiarazione sostitutiva resa (ai sensi e per gli effetti degli artt. 46 e 47 d.p.r. n. 445/2000) nel corso della domanda di iscrizione nel registro dei praticanti avvocati avanzata al competente COA, avendo questi falsamente attestato di non avere carichi pendenti.


Circostanza smentita dagli accertamenti eseguiti dal medesimo Consiglio dell'Ordine che, all'epoca della resa dichiarazione, trovava a carico dell'aspirante praticante due procedimenti penali.


In Cassazione, quest'ultimo contesta il valore di dichiarazione sostitutiva attribuito a quella resa al COA, non avendo il giudice a quo verificato se vi fosse stata o meno sottoscrizione alla presenza di un dipendente, non risultando, in ogni caso, autenticata la sottoscrizione del ricorrente.

Ancora, la difesa rileva la mancanza di un richiamo alle sanzioni penali nel modulo predisposto dal COA in caso di dichiarazioni mendaci (ex art. 76, d.p.r. 445/2000) nonché l'assenza di una dichiarazione per esteso di non essere sottoposto a procedimenti penali, non essendo sufficiente, ai fini dell'integrazione del reato, limitarsi a barrare uno spazio contenuto nel modulo.

Autentica di firma non necessaria per la dichiarazione ex art. 46 d.p.r. 445/2000

Gli Ermellini, dopo aver inquadrato la normativa di riferimento, osservano come il modulo in questione, sottoscritto dal ricorrente, contenesse la espressa dicitura circa la consapevolezza, da parte del sottoscrittore, che l'accertamento della non veridicità delle dichiarazioni rese lo avrebbe esposto alla responsabilità penale, con revoca dell'ammissione, se conseguita, da parte del Consiglio dell'Ordine.

Pertanto appare evidente il richiamo all'obbligo giuridico del dichiarante a dire il vero, condizione in presenza della quale può sussistere il reato di cui all'art. 483 del codice penale. Un'assunto confermato dal pacifico orientamento della Corte stessa che, in tema di dichiarazione resa ex art. 46 d.p.r. 445/2000 ha ravvisato la configurabilità del delitto di falso ideologico commesso dal privato, qualora la dichiarazione sostitutiva di atto notorio sia falsa.

Per il Collegio, la sentenza impugnata ha dato atto come, nel caso in esame, la dichiarazione fosse stata resa ai sensi dell'art. 46 del d.p.r. cit. che non richiede, ai fini della validità della sottoscrizione, alcuna autentica di firma.

Infatti, a differenza da quanto disposto dall'art. 47 dello stesso d.p.r., tale norma non contiene alcun richiamo all'art. 38 e, quindi, alle modalità di sottoscrizione in presenza del dipendente addetto ovvero mediante presentazione, unitamente alla sottoscrizione, di un documento di identità del sottoscrittore.

Reato rendere al COA una falsa dichiarazione sostitutiva di atto notorio

Senza alcun dubbio, chiarisce la Cassazione, l'autocertificazione ex art. 46 riveste la funzione di provare i fatti attestati, evitando al privato l'onere di provarli con la produzione di certificati (nella specie certificato del casellario giudiziale) e, in tal modo, essa collega l'efficacia probatoria dell'atto al dovere del dichiarante di dichiarare il vero.

Come ribadito dalla giurisprudenza, il delitto di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico sussiste solo qualora una specifica norma giuridica attribuisca all'atto la funzione di provare i fatti attestati dal privato al pubblico ufficiale e ad esso siano ricollegati specifici effetti. Il delitto, dunque, non sussiste qualora la condotta del privato non sia destinata a confluire in un atto pubblico e, quindi, a provare la verità dei fatti in essa attestati.

Ciò significa, quindi, che la norma di cui all'art. 483 c.p. richiede, per la definizione del suo contenuto precettivo, il collegamento con una diversa norma (eventualmente di carattere extrapenale) che conferisca attitudine probatoria all'atto in cui confluisce la dichiarazione inveritiera, così dando luogo all'obbligo per il dichiarante di attenersi alla verità.

Nel caso di specie, tale norma è individuata proprio nell'art. 46 del d.p.r. n. 445/2000, che indica le varie categorie di stati, qualità personali e fatti comprovanti con dichiarazioni sottoscritte dall'interessato, e nel successivo art. 48 che onera le amministrazioni, nella predisposizione dei moduli per la presentazione della dichiarazioni sostitutive, di inserire il richiamo alle sanzioni penali previste per le ipotesi di falsità in atti e dichiarazioni mendaci.

Nel caso in esame, pertanto, stante l'incontestata natura di enti pubblici non economici degli Ordini e dei Collegi nazionali professionali, inclusi tra le pubbliche amministrazioni (cfr. art. 1, comma secondo, d.lgs. n. 29/1993, poi trasfuso nel d.lgs. n. 165/2001) e stante l'espresso richiamo alle sanzioni penali in caso di dichiarazioni mendaci, contenuto nel modulo predisposto dal Consiglio dell'Ordine degli Avvocati dell'aspirante praticante, la condotta del ricorrente integra senza alcun dubbio la fattispecie penale di cui all'art. 483 del codice penale.

Corretta anche l'esclusione, nella specie, della causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis c.p., stante l'interesse del Consiglio dell'Ordine a un'informazione veritiera; inoltre, la circostanza che l'omessa indicazione riguardava due distinti procedimenti penali manifesta una reiterazione incompatibile con il fatto di particolare tenuità.

Cass., V pen., sent. n. 21683/2018

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