di Lucia Izzo - È condannata a pagare alla controparte una somma equitativamente determinata la donna che propone ricorso in Cassazione, senza la necessaria diligenza, impugnando la decurtazione del compenso al difensore: le ragioni della censura risultano essere palesemente insostenibili in quanto il giudice non è vincolato nei minimi e nei massimi dai parametri forensi e la decisione, nel caso di specie, è stata tra l'altro giustificata dalla semplicità e ripetitività delle questioni proposte in sede di merito.
La vicenda
Lo ha precisato la Corte di Cassazione, sesta sezione civile, nell'ordinanza n. 20790/2017 (qui sotto allegata), che ha rigettato il ricorso della contribuente. Accogliendo l'opposizione ex art. 615 c.p.c., avverso cartella esattoriale quale sanzione per infrazione al codice della strada, il giudice di prime cure aveva liquidato, in base al d.m. n. 140 del 2012, una somma pari a 125,00 euro per compensi e 55,00 euro per spese, oltre accessori di legge.
In Cassazione, la donna sostiene che non sia stato tenuto conto dei parametri di cui al predetto d.m. essendo stata operata una diminuzione dei compensi di oltre il 50% senza adeguata motivazione. Un motivo che gli Ermellini giudicano "manifestamente infondato".
Niente liquidazioni "simboliche" anche se il giudice può discostarsi dalle tabelle forensi
Premesso che il giudice per la determinazione del compenso degli avvocati può discostarsi dalle tabelle, diminuendo o aumentando ulteriormente il compenso in considerazione delle circostanze concrete, proprio nell'ottica dell'art. 11, comma 1, del d.m. n. 140 del 2012, il giudice a quo ha provveduto a evidenziare le circostanze in forza delle quali ha ritenuto liquidare la somma contestata.
Si è fatto riferimento alla "esiguità del valore della causa (euro 296)", alla "natura meramente documentale" e alla "estrema semplicità e ripetitività delle questioni proposte" (omessa notificazione del verbale di accertamento e prescrizione dell'obbligazione sanzionatoria).
Una decisione che, precisa il Collegio, si colloca armonicamente nel contesto del citato d.m., che è stato emesso in base all'art. 9 del d.l. n. 1 del 2012, il quale dispone, all'art. 1, comma 7, che "In nessun caso le soglie numeriche indicate, anche a mezzo di percentuale, sia nei minimi che nei massimi, per la liquidazione del compenso, nel presente decreto e nelle tabelle allegate, sono vincolanti per la liquidazione stessa" (cfr. anche Cass. n. 18167/2015).
Fermo restando il limite (nella specie non affatto superato) di cui all'art. 2233, comma 2, c.c., che preclude di liquidare, al netto degli esborsi, somme praticamente simboliche, non consone al decoro della professione.
Stante il rigetto del ricorso, la donna sarà dunque costretta a liquidare, in favore della controparte, le spese di giudizio di legittimità, e non solo: infatti, conclude la Cassazione, "la palese insostenibilità delle ragioni di censura prospettate con il ricorso (e ribadite con la memoria), in contrasto con l' exacta diligentia richiesta professionalmente ai fini della proposizione dell'impugnazione di legittimità)", è presupposto idoneo per la condanna della ricorrente, ex art. 96, comma 3, c.p.c., al pagamento, in favore della parte controricorrente, della somma, equitativamente determinata, di euro 1.000,00.
Cass., VI civile, ord. n. 20790/2017• Foto: 123rf.com