Condannata una donna disoccupata, sotto sfratto e con una figlia in gravidanza per un allaccio abusivo alla rete elettrica

di Marina Crisafi - Non basta essere disoccupati, sotto sfratto e con una figlia incinta per allacciarsi abusivamente alla rete elettrica e passarla liscia. Tale condotta, infatti, rimane qualificata come reato e non è giustificata dallo stato di necessità. Lo ha sancito oggi la Cassazione (con la sentenza n. 39884/2017 sotto allegata), confermando la condanna per furto di energia elettrica nei confronti di una donna che si trovava in "condizioni certamente precarie e faticose".

La vicenda

A nulla valgono, tuttavia, i tentativi della difesa di far assolvere l'imputata (che si trovava senza lavoro, sotto sfratto e con una figlia incinta), per mancanza di colpevolezza in applicazione del principio di cui all'art. 54 c.p.

Per gli Ermellini, invece, va confermata la sentenza di condanna in appello, ivi compresa l'aggravante ex at. 625, comma 1, n. 2, c.p.

Furto di energia elettrica è reato, non si tratta di un bene indispensabile alla vita

"L'esimente dello stato di necessità postula il pericolo attuale di un danno grave alla persona, non scongiurabile se non attraverso l'atto penalmente illecito, e non può quindi applicarsi a reati asseritamente provocati da uno stato di bisogno economico, qualora ad esso possa comunque ovviarsi attraverso comportamenti non criminalmente rilevanti" ricordano infatti dal Palazzaccio.

Nel caso di specie, invece, la mancanza di energia elettrica non comportava nessun pericolo attuale di danno grave alla persona, "trattandosi di bene non indispensabile alla vita", semmai "idoneo a procurare agi ed opportunità, che fuoriescono dal concetto di incoercibile necessità, insito nella previsione normativa".

Quanto all'aggravante del mezzo fraudolento, anche su tale punto è corretta la decisione del giudicante, secondo cui "l'allaccio abusivo alla rete, in qualunque modo effettuato, integra la fraudolenza sanzionata dall'art. 625, n. 2".

Per cui donna condannata, anche al pagamento delle spese processuali e al versamento di 2mila euro alla Cassa delle ammende.

Cassazione, sentenza n. 39884/2017

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