Per la Cassazione, lo strumento di autodifesa può trasformarsi in un mezzo atto ad offendere

di Redazione - Lo spray al peperoncino è uno strumento di autodifesa che tuttavia in base alle modalità in cui è impiegato può trasformarsi in un mezzo ad offendere. Lo ha precisato la sesta sezione penale della Cassazione (nella sentenza n. 10889/2017 qui sotto allegata), rigettando il ricorso di un uomo condannato per resistenza a pubblico ufficiale e lesioni personali aggravate per aver spruzzato negli occhi di una guardia forestale uno spray urticante.

L'uomo si duole, tra l'altro, di mancanza di motivazione e violazione di legge nella sentenza impugnata, con riferimento all'aggravante contestatagli ex art. 585 c.p., giacché connessa all'uso di gas asfissianti e/o accecanti, mentre, come emerso dall'istruttoria, lo spray urticante impiegato, a base di estratto di piante di peperoncino, rientra nella categoria degli strumenti di autodifesa che non hanno attitudine a recare offesa alle persone ai sensi del d.m. 12 maggio 2011 e che come tali non possono essere considerati armi o ad esse assimilabili per le finalità di cui all'art. 585 c.p.


Da qui, venendo meno l'aggravante, il reato, asserisce l'imputato, diventa perseguibile a querela, la cui mancanza doveva portare l'estinzione per assenza della condizione di procedibilità.

Per la S.C., tuttavia, il ricorso è infondato e va rigettato.

Anzitutto, precisano gli Ermellini, laddove si dovesse aderire alla tesi dell'efficacia scriminante del decreto ministeriale, le sue disposizioni si applicano decorsi sei mesi dalla data di pubblicazione dello stesso nella Gazzetta Ufficiale, mentre la vicenda rientra nel periodo precedente, vedendo continuare ad applicarsi dunque le norme previgenti. Inoltre, le norme regolamentari del decreto, "costituiscono all'evidenza norme extrapenali integratrici del precetto, nel senso che finiscono per limitare, attraverso un meccanismo di rinvio ad un generale ambito normativo tematico, la nozione di strumenti atti ad offendere assimilati alle armi e quindi l'ambito di operatività del precetto stesso, ma non incidono sulla struttura essenziale del reato ed è noto che per tali norme non vale il principio di applicazione retroattiva della legge più favorevole di cui all'art. 2, comma 4 cod. pen., come stabilito a più riprese dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte di legittimità".


Ultima ma non meno rilevante ragione d'infondatezza delle censure mosse, infine, affermano dal Palazzaccio, risiede nel fatto che il tenore della previsione ex art. 2 del dm, evidenzia come la sottrazione dello spray al peperoncino "dalla categoria degli oggetti atti ad offendere di cui all'art. 4 l. n. 110 del 1975 è subordinata non solo alla condizione di conformità alle caratteristiche tecniche di cui all'art. 1, comma 1, ma anche alle modalità di impiego esclusivamente finalizzate all'autodifesa personale, mentre l'impiego come mezzo d'offesa - quale verificatosi nella fattispecie - comporta la piena e incondizionata applicazione della normativa in tema di armi".


Senza contare, hanno sancito infine i giudici di legittimità, rigettando il ricorso, il principio, ripetutamente affermato dalla giurisprudenza (cfr., tra le altre Cass. n. 11753/2012), secondo il quale "il porto in luogo pubblico di tale bomboletta, contenente gas urticante idoneo a provocare irritazione degli occhi, sia pure reversibile in un breve tempo, è idonea ad arrecare offesa alla persona e come tale rientra nella definizione di arma comune da sparo da cui all'art. 2 L. n. 110 del 1975".

Leggi anche: "Spray antiaggressione: si possono usare?"

Cassazione, sentenza n. 10889/2017

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