di Marina Crisafi - Il reato di maltrattamenti in famiglia scatta quando esiste una relazione sentimentale che crea vincoli affettivi, a prescindere dal vincolo matrimoniale e dalla coabitazione. Lo ha stabilito la Cassazione (con la sentenza n. 491/2017, depositata il 4 gennaio e qui sotto allegata), dichiarando inammissibile il ricorso di un uomo avverso la sentenza di condanna per il reato ex art. 572 c.p. per aver maltrattato la propria convivente, poi divenuta sua moglie.
L'uomo non ci sta e ricorre innanzi al Palazzaccio eccependo che tra i due non vi era rapporto di coabitazione, perché la donna la sera andava a dormire presso la propria casa, anche dopo il matrimonio, peraltro simulato, e che la collaborazione nell'azienda di famiglia era solo saltuaria.
Ma la difesa dell'uomo non regge. Per i giudici di piazza Cavour va ribadito il principio condiviso secondo cui in tema di maltrattamenti in famiglia, "l'art. 572 c.p. è applicabile non solo ai nuclei fondati sul matrimonio ma a qualunque relazione sentimentale che per la consuetudine dei rapporti creati implichi l'insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale". Di conseguenza, non è necessaria, "ai fini della configurabilità del reato né la esistenza del matrimonio né quella di una coabitazione che si protragga ininterrottamente durante la giornata poiché è la sussistenza di una situazione giuridica, derivante dal vincolo matrimoniale o di fatto nell'ipotesi di una condizione di convivenza o della presenza di stabili relazioni affettive, che provochino l'affidamento reciproco e la presenza di vincoli di assistenza, protezione e solidarietà, per effetto del comune sviluppo personale e psicologico che in tali comunità si verificano a giustificare, in ragione del vincolo di solidarietà reciproca che questo crea" ad essere tutelata dall'art. 572 c.p.
Tanto è vero che la norma, ricordano gli Ermellini, pur essendo collocata nel capo riguardante i reati contro la morale familiare, considera anche situazioni analoghe, come l'affidamento del minore degli anni quattordici, o di una persona per finalità di istruzione, cura, vigilanza e custodia, "facendosi carico dei complessi rapporti psicologici che si formano in tali piccole comunità, e dell'affidamento che a livello personale consegue a tali diretti contatti personali".
Nella fattispecie, peraltro, in base alle convergenti dichiarazioni rese dalla vittima e dalla figlia, non vi è dubbio che una situazione di convivenza (seppur non di 24ore) si era venuta a creare tra la donna e l'imputato, tanto che i due non solo avevano contratto matrimonio, ma la donna contribuiva all'impresa familiare prestando anche soldi allontanandosi solo la sera e pernottando presso la sua abitazione durante i weekend. Da qui l'inammissibilità del ricorso.
Cassazione, sentenza n. 491/2017