di Marina Crisafi - I medici obiettori possono opporsi all'aborto ma non alla somministrazione di contraccettivi come la "pillola del giorno dopo" che, di fatto è equiparabile a un normale farmaco. Per cui il ginecologo del consultorio non può rifiutarsi di prescriverlo. A sancirlo è il Tar Lazio con una recente sentenza (la n. 8990/2016 qui sotto allegata) rigettando il ricorso proposto dalla Federazione Movimento per la vita (e altri) avverso il decreto regionale (c.d. decreto Zingaretti in qualità di commissario ad acta per la sanità regionale) che, a detta dei ricorrenti, intendeva obbligare gli obiettori di coscienza a prendere parte alle procedure per l'aborto, dovendo certificare lo stato di gravidanza, e prescrivere i contraccettivi ormonali "post-coitali" violando così le disposizioni di legge.
Per il Tar, invece, il decreto non viola il diritto all'obiezione di coscienza, anzi ne tiene pienamente conto e si pone in perfetta continuità con le leggi statali essendo funzionale a raggiungere più elevati standard di qualità del SSN.
Preliminarmente il Tar ricorda che l'obiezione di coscienza, secondo la legge n. 194/1978 "esonera il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l'interruzione della gravidanza - e non già - dall'assistenza antecedente e conseguente all'intervento".
Per cui, il fatto che si preveda nella disposizione impugnata che il medico obiettore rilasci il certificato dello stato di gravidanza o attesti la volontà della donna di interromperla costituiscono adempimenti ai doveri professionali che non determinano certo "la compressione della libertà di coscienza, laddove non siano rivolte ad attuare 'specificamente e necessariamente' l'interruzione di gravidanza, ma a prestare la necessaria 'assistenza antecedente e seguente all'intervento', posto soprattutto che la decisione relativa alla interruzione della gravidanza pure in presenza di detta certificazione spetta all'interessata che può recedere da tale proposito".
L'eventuale rifiuto del medico di intervenire per prestare necessaria assistenza alla degente, peraltro, ricorda il giudice amministrativo, integra, come statuito dalla giurisprudenza della Cassazione (cfr. n. 14979/2013), una responsabilità per il delitto previsto e punito dall'art. 328 del codice penale.
È evidente dunque che i termini entro i quali "la libertà di coscienza di cui è espressione l'obiezione del medico ginecologo di un consultorio va coniugata col diritto alla salute di cui all'art. 32 della Costituzione".
Quanto alla prescrizione dei farmaci contraccettivi post-coitali, e dunque, della pillola del giorno dopo, il Tar ha rigettato la doglianza "con cui parte ricorrente fa riferimento a due specifiche specialità medicinali attualmente in commercio che sortirebbero l'effetto di un aborto chimico, poiché non sarebbe possibile escludere che abbiano effetto anche in un momento successivo al concepimento, causando la perdita dell'embrione umano già formatosi". Ciò per due motivi. In primo luogo, perché ha affermato il Tar, rifacendosi agli orientamenti della giurisprudenza costituzionale, civile e amministrativa sul corretto bilanciamento tra il diritto alla salute della donna incinta e la tutela dell'embrione, il legislatore ha "inteso quale evento interruttivo della gravidanza quello che interviene in una fase successiva all'annidamento dell'ovulo nell'utero materno" e tali circostanze non ricorrono nell'uso di "metodiche anticoncezionali i cui effetti si esplicano in una fase anteriore all'annidamento dell'ovulo".
In secondo luogo, comunque la censura, per il Tar, è affidata "ad affermazioni apodittiche", considerato che la copiosa documentazione scientifica ufficiale (proveniente dall'Aifa, dall'Ema, dalla Società italiana della contraccezione ecc.) sull'uso dei contraccettivi d'urgenza ha ormai chiarito che la pillola del giorno dopo è un contraccettivo e non può essere assimilata all'aborto. Da qui il rigetto del ricorso.
Tar Lazio, sentenza n. 8990/2016
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