Confermata dal Cnf la sanzione dell'avvertimento nei confronti dell'avvocato che, pur avvisato del ritardo, dopo 5 minuti ha chiesto al giudice di procedere

di Marina Crisafi - Viola i doveri di lealtà, correttezza e colleganza, l'avvocato che nonostante venga avvertito del ritardo incolpevole del collega di controparte in udienza, chieda al giudice di dare atto della sua assenza e di trattare la causa. Lo ha stabilito il Consiglio Nazionale Forense, nella sentenza n. 160/2015 (pubblicata in questi giorni sul sito istituzionale e qui sotto allegata), rigettando il ricorso di un avvocato avverso la decisione del COA di Trento che gli aveva inflitto la sanzione disciplinare dell'avvertimento per non aver atteso l'arrivo del collega di controparte in udienza, nonostante fosse stato avvisato del ritardo dovuto alla foratura di uno pneumatico del veicolo con cui stava viaggiando.

Il professionista, infatti, pur essendo stato edotto dell'accaduto, come risultava dalla copia del verbale di udienza, dopo appena cinque minuti rispetto all'orario fissato, insisteva affinchè l'udienza si tenesse ugualmente.

Il collega non stava a guardare e chiedeva al Coa di valutare il comportamento dell'altro sotto il profilo disciplinare. Il Consiglio gli ha dato ragione ritenendo che tale comportamento fosse contrario ai doveri di lealtà, correttezza e colleganza e irrogava perciò la sanzione dell'avvertimento.

Giunta davanti al Cnf, la questione viene risolta nello stesso senso.

A nulla valgono le tesi difensive dell'incolpato secondo il quale il ritardo comunicato telefonicamente alla cancelleria, e non presso il suo studio, proprio in prossimità dell'udienza, peraltro, era privo di indicazione anrochè approssimativa dell'arrivo "probabile o possibile" del difensore e che comunque la decisione del Coa non teneva conto delle condotte "dilatorie" tenute dalla controparte nella conduzione del processo.

Per il Cnf non c'è dubbio sul fatto che la condotta dell'avvocato incolpato non sia stata rispettosa dei doveri di comportamento di cui agli artt. 6, 22 e 23 cod. deont. previg.

Egli, infatti, "al corrente dell'incidente occorso al difensore della controparte, non ha inteso attendere, se non per l'insignificante tempo di cinque minuti, chiedendo poi la fissazione della precisazione delle conclusioni, consapevole della circostanza che in tale modo determinava la decadenza della controparte dalla facoltà dai far sentire il testimone (oltre che la decadenza dalle ulteriori attività difensive da svolgersi prima della chiusura dell'istruttoria che la controparte avesse inteso svolgere)".

Né possono soccorrere nel senso preteso dall'incolpato i comportamenti degli altri avvocati, le cui asserite condotte dilatorie semmai avrebbero potuto essere sanzionate dal giudice con gli strumenti previsti dalla legge processuale ma non giustificano "certo l'iniziativa assunta dall'incolpato".

Peraltro, si legge nella sentenza

, "la conferma della compatibilità di un atteggiamento di maggiore tolleranza con il dovere di difesa richiamato dall'art. 23 cod. deont. previg. è data dalla circostanza che la controparte, valendosi della norma specificamente prevista per ovviare alle decadenze verificatesi per causa non imputabile (al tempo l'art. 184-bis c.p.c.), ha ottenuto la rimessione in termini". L'esclusione di un pregiudizio a seguito della concessa remissione ha chiosato il Cnf non solo "non fa venir meno la rilevanza disciplinare della condotta, ma anzi rappresenta la conferma che l'incolpato avrebbe potuto tenere un contegno diverso, senza con ciò mancare ai propri doveri di difesa".

Cnf, sentenza n. 160/2015

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